STOICISMO E CRISTIANESIMO

27 Mar

STOICISMO E CRISTIANESIMO

Due pensieri così vicini e così lontani

Questo scritto è un insieme di considerazioni, prive di qualsiasi pretesa di esaustività, in merito a un argomento intellettualmente stimolante e storicamente significativo: i rapporti di somiglianza e di diversità tra due correnti culturali fondamentali per la storia romana ed europea, quali furono lo stoicismo e il cristianesimo.

Ciò che le accomuna è definibile (a mio avviso) prima di tutto in termini valoriali, ed è l’accento posto da entrambe sulla fratellanza come valore essenziale del vivere umano, con tutto ciò che essa implica: l’umiltà personale, uno stile di vita improntato ad austerità e morigeratezza, e il valore della solidarietà verso i propri simili (che implica, in entrambe queste visioni, anche se con diversi gradi di intensità, il dovere di non ferirli, anche qualora essi ci siano ostili o nemici)… Ciò da cui esse sono accomunate, in altri termini, è l’imperativo di amare e prendersi cura degli altri uomini anche a scapito del proprio vantaggio personale immediato.

Un tale valore, essenziale per entrambe queste correnti di pensiero, e che per gli stoici rientra nell’ambito di quella che essi chiamano la “virtù”, mentre dai cristiani è definito “santità” o spirito di carità, mi sembra ciò che maggiormente avvicina tra loro queste diverse “filosofie” (il termine filosofia è qui usato in un senso molto ampio, quello cioè di visione complessiva del mondo… Anche la religione cristiana difatti, pur non essendo per ovvie ragioni fondata razionalmente, in quanto basata su dogmi o assunti di fede, è a suo modo una filosofia, ovvero una visione “a tutto tondo” del mondo e del posto che l’uomo vi occupa, nonché del suo destino oltremondano!)

E fu proprio, tra l’altro, anche sfruttando tali affinità che il cristianesimo riuscì a raccogliere in misura notevole l’”eredità” spirituale dello stoicismo, traendo dalla sua capillare penetrazione nel mondo greco romano un notevole beneficio nel proprio tentativo di penetrazione.

Due diverse visioni teologiche, e non solo…

Vi sono tuttavia, anche delle profonde differenze tra queste due concezioni. E tali differenze, mi sembra, possono essere fatte risalire alla loro diversa ispirazione o radice di partenza: socratica e razionalistica nel caso dello stoicismo, ebraica e messianica nel caso del cristianesimo.

Sia chiaro, entrambe queste filosofie ebbero e hanno (nella misura in cui esse hanno ancora un senso e un valore oggi) come scopo ultimo quello di portare l’uomo a una sorta di “divinizzazione”, di avvicinarlo il più possibile a Dio, nobilitandolo ed elevandolo spiritualmente. La virtù stoica è, in un certo senso, l’equivalente della santità cristiana: entrambe infatti danno all’uomo l’accesso a una dimensione più alta rispetto a quella ordinaria e volgare, a una dimensione maggiormente divina.

Ma se per entrambe l’uomo deve elevarsi a Dio, nei limiti delle sue possibilità, e in tal modo raggiungere una sorta di beatitudine interiore, molto diversa in ogni caso è (in primo luogo) l’idea che esse ne hanno.

Il Dio degli stoici si identifica (spinozianamente) con la Natura stessa, di cui l’uomo è parte a prescindere da ciò che può fare o pensare: lo stoico è colui che si rende conto della propria radice divina, di fare parte cioè di un più ampio e perfetto disegno divino (λόγος), ragion per cui egli è più divino dell’uomo ordinario e volgare. Ma il Dio stoico, a differenza di quello cristiano, non è assolutamente un dio personale e trascendente.

Al contrario, per i cristiani, Dio è un’entità trascendente (che quindi non si identifica con la Natura, la quale pure ne è il riflesso immanente) e personale (che quindi è dotata di un’intenzionalità propria, attraverso cui tra l’altro distribuisce premi e punizioni alle singole creature). Il cristiano del resto, attraverso la propria fede, pone in atto un processo di ascesa verso un assoluto che è al di là della sua attuale condizione fisica e naturale, verso una condizione che si colloca, nella sua pienezza, in una dimensione ultraterrena e puramente spirituale: egli si eleva cioè non nella natura, ma al di là di essa!

Lo stoico accetta la propria condizione mondana, ma il cristiano?…

In questa prima e fondamentale differenza, io vedo la radice di una seconda e profondissima differenza: lo stoico accetta con fiducia e fermezza la propria condizione di limitatezza e finitudine (come, del resto, quella altrui) senza aspirare a superarla, senza aspirare cioè ad accedere a un piano di realtà eterno ed infinito, che di per sé appartiene soltanto al dio immanente di cui egli è una componente parziale e passeggera; diversamente il cristiano, pur accettando a sua volta la propria condizione di miseria e di umiliazione, anche sociale (ricordiamoci che – come si vede bene nei Vangeli – la predicazione di Gesù si rivolse molto più agli “ultimi” della società che non alle classi alte…), lo fa al fine di poterla superare e in qualche modo rovesciare nel suo opposto, “nella gloria del Signore”.

[Potremmo dire, sulla scorta di tante affermazioni dei pensatori stoici, che la virtù è per essi premio a se stessa, proprio per il dono di pienezza ed equilibrio che porta con sé in questa vita, laddove la santità cristiana (pur non essendo l’aspettativa del premio della vita eterna la motivazione principale del vero cristiano) per sua natura si porta dietro un tale premio, in relazione al quale soltanto possiamo definirla fonte di felicità e di beatitudine, a dispetto delle sofferenze e dei sacrifici che implica in questa vita.]

Del resto, a riprova di quanto detto, si può osservare che, mentre il Manuale di Epitteto inizia distinguendo rigidamente le cose che in noi dipendono da noi (τὰ ἐφ’ημίν), da quelle che non dipendono da noi (τὰ οὐκ ἐφ’ημίν), e invitando l’uomo a concentrarsi soltanto sulle prime, accettando così il limite strutturale della propria condizione; al contrario, una delle più celebri affermazioni fatte da Gesù nei Vangeli, è quella secondo cui la fede sarebbe in grado di smuovere anche le montagne – manifestazione plastica di quanto sopra detto: la fede in Dio, e l’umile accettazione della propria condizione che essa porta con sé, implicherebbero l’elevazione del credente fino a Dio stesso, tanto da renderlo in parte partecipe degli attributi di eternità e infinita potenza di quest’ultimo. (Allo stesso modo, peraltro, i miracoli chiesti a Gesù vanno a segno solo qualora colui che li chiede abbia una fede incondizionata in lui, nella sua potenza e nella sua natura divina, quindi anche appunto nella sua capacità di operare miracoli.)

Inoltre, il Dio dei cristiani dà ai credenti ordini incondizionati, di valore assoluto, che prescindono dalla considerazione del contesto in cui dovrebbero realizzarsi, promettendo poi ricompense (e punizioni) altrettanto assolute! Il Dio immanente e panteistico degli stoici, al contrario, pone al saggio degli imperativi che, oltre a realizzarsi per forza di cose nel tempo e nel mondo, sono funzionali alla vita umana nella sua concretezza, dal momento che il loro scopo è quello di realizzare la vera felicità (leggi: la virtù) in essa e non al di fuori di essa.

Forse anche per questo, per questo loro carattere di maggiore concretezza e realismo, tali imperativi hanno un carattere meno astratto e più circostanziato rispetto a quelli impartiti ai cristiani dal loro Dio. Come accennavo prima, ad esempio, il dovere stoico di fratellanza e di solidarietà verso i propri simili e in particolare verso coloro che errano (cioè che sono fuori dalla virtù), la recisa condanna stoica di ogni forma di vendetta e violenza, non escludono che (in casi “disperati”, in cui ogni tentativo di redenzione del peccatore si dimostri fallimentare) sia lecito infliggere a quest’ultimo anche la pena di morte. (Seneca, il principe…)

Del pari, mentre il cristiano condanna in modo assoluto il suicidio, al tempo stesso ricercando a volte la morte come martirio (cioè come testimonianza di fede, a immagine dello stesso Cristo), lo stoico non la cerca in alcun modo anche se non la teme, né esclude (come noto) che in certe condizioni, particolarmente difficili, essa possa costituire l’unica soluzione a una situazione senza speranza.

Infine, ma certamente non in ultimo, non dimentichiamo che, coerentemente con quanto detto in precedenza, lo stoico non crede in una vita post mortem, in una vita spirituale ed eterna (l’ontologia stoica infatti, è puramente materialista, anche in relazione allo spirito e alla vita), laddove al contrario il cristiano ha in tale convinzione uno dei principali fondamenti della propria fede.

Due tradizioni con origini molto diverse tra loro…

Queste, a braccio, mi sembrano le principali analogie e differenze tra due visioni del mondo che almeno negli ultimi secoli dell’Impero romano si contesero in esso (anche se certamente non da sole) una sorta di primato spirituale. E delle quali mi sembra di poter dire che la seconda, il cristianesimo, si configurò in gran parte come l’erede della prima (pur non determinandone affatto la scomparsa, anche nei periodi di maggiore rigoglio del suo messaggio).

[Sulle relazioni concretamente intrattenute tra pensatori cristiani e pensatori pagani, ci soffermeremo più avanti, nella parte antologica…]

Mi pare infine opportuno concludere questa breve e certamente discutibile disamina, sottolineando ancora una volta la differente radice o origine di questi due pensieri.

Lo stoicismo infatti, si inserisce nella tradizione greca razionalistica e filosofica, all’interno della quale si collocò nella corrente che potremmo definire più spiccatamente naturalistica e materialistica (e che si contrappose ad altre, più spiritualistiche, in particolare a quella platonica). Ed ebbe inoltre in Socrate – in quella sua serena imperturbabilità, tutta greca, fondata su una fiducia incondizionata nella ragione, che gli permise di affrontare con animo distaccato perfino l’imminenza della morte – il proprio modello ideale, laddove invece i cristiani lo ebbero in Gesù, profeta o messia di stampo ebraico, tutto versato in una fede tanto viscerale quanto intrinsecamente irrazionale, oltre che nell’attesa di una imminente palingenesi del mondo (pensiero apocalittico).

Se la tradizione greca puntava da sempre il dito sul concetto di dominio di sé (attraverso la razionalità e la conoscenza di sé), la tradizione ebraica lo puntava al contrario sul valore della fede incondizionata in un Dio trascendente e giusto come fonte di salvezza personale e collettiva, sull’affidamento totale dell’uomo a una volontà che lo trascende.

Il primo aspetto si trova espresso all’interno del pensiero stoico, in particolare in quello di Epitetto, nel concetto davvero cruciale di principio egemonico (ἴδιος ἡγεμονικός), ovvero di quella parte del nostro spirito che comanderebbe su tutte le altre parti, ovvero in ultima analisi su noi stessi, e che qualora malata porterebbe l’uomo al peccato e all’errore, e qualora sana (in quanto consapevole) lo porterebbe alla giustizia e alla virtù.

Il secondo aspetto invece, quello della fede, si esplica all’interno della tradizione cristiana nell’idea di πίστις o di fede in Dio (ovvero in Cristo, suo figlio unigenito e mediatore tra Esso e l’Umanità): solo chi crede in Dio infatti, nella sua infinita bontà e amorevolezza verso tutte le creature, riceve da lui la salvezza eterna.

Se i Vangeli (e in generale gli scritti del Nuovo Testamento) parlano agli uomini di speranza e di fiducioso abbandono a una volontà altra e superiore, il Manuale di Epitteto (solo per fare un esempio di pensiero stoico) li esorta invece alla pratica di una disciplina inflessibile, improntata (come la dottrina cristiana) al più radicale idealismo, ma basata anche sulla consapevolezza della necessità di una ferrea volontà personale (guidata da una lucida ragione filosofica) come base per l’ottenimento dello scopo ultimo dell’esistenza umana: ovvero la virtù, la sola vera felicità che possa esistere.

Nonostante questa differenza di fondo tuttavia, abbiamo visto come queste due dottrine o filosofie di vita abbiano somiglianze più che trascurabili, quanto ai fini e agli scopi che si propongono per orientare l’esistenza umana verso il Bene.

Potremmo quasi osservare che, al netto di così grandi differenze di partenza o di “radice”, c’è sinceramente da stupirsi che tali pensieri abbiano avuto, pur nelle loro innegabili diversità, anche delle così grandi somiglianze.

E ci sarebbe forse anche da chiedersi se esse siano del tutto casuali, o se al contrario alla loro base vi sia stata una causa – pur non immediatamente evidente – niente affatto casuale.

IL BUFFONE FILIPPO SI AUTOINVITA AD UN SIMPOSIO

3 Mag

(Dal “SIMPOSIO” di Senofonte: 1.11->16)

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Il Simposio (Συμπόσιον) di Senofonte è un testo poco conosciuto, contrariamente all’omonima opera di Platone.

Eppure questi due testi hanno molte analogie tra loro:

1) parlano di un convito o simposio serale cui, ovviamente, partecipano soli uomini (cittadini ateniesi, molti dei quali nobili e ricchi);

2) tra essi compare anche (e soprattutto) il filosofo Socrate,

3) il quale condivide con i commensali le sue riflessioni sul tema dell’Amore.

Nonostante il paragone con l’opera di Platone sia abbastanza incongruo, data la schiacciante superiorità di quest’ultima, anche il testo senofonteo possiede delle qualità che, se non filosofiche, sono quantomeno artistiche ed espressive: esso brilla infatti per la vivacità delle immagini e dei dialoghi, e per una certa capacità di restituire l’atmosfera allegra e non sempre raffinata di un simposio reale, non idealizzato come quello descritto da Platone.

In questo divertente brano, il buffone Filippo, uno scroccone che spera di partecipare a molti banchetti in virtù della sua capacità di far ridere i partecipanti, si introduce non invitato, e cerca da subito (ma senza successo) di suscitare l’ilarità del pubblico.

(ὅτι μὲν γελωτοποιός εἰμι ἴστε πάντες: ἥκω δὲ προθύμως νομίσας γελοιότερον εἶναι τὸ ἄκλητον ἢ τὸ κεκλημένον ἐλθεῖν ἐπὶ τὸ δεῖπνον. — Io sono un buffone – disse – lo sapete tutti, e mi sono affrettato a venire, ben sapendo che presentarsi a un banchetto senza invito sarebbe stato più spiritoso che venirci da invitato.)

Il magro risultato dei suoi tentativi lo getterà in una crisi che pare essere tanto esistenziale, quanto “pratica”.

(ἐπεὶ γὰρ γέλως ἐξ ἀνθρώπων ἀπόλωλεν, ἔρρει τὰ ἐμὰ πράγματα. πρόσθεν μὲν γὰρ τούτου ἕνεκα ἐκαλούμην ἐπὶ τὰ δεῖπνα, ἵνα εὐφραίνοιντο οἱ συνόντες δι᾽ ἐμὲ γελῶντες. νῦν δὲ τίνος ἕνεκα καὶ καλεῖ μέ τις; — Se gli uomini hanno perso la voglia di ridere, io sono rovinato. Fino ad ora mi convocavano tutti perché i convitati si divertissero alle mie trovate. Ma ora? Perché mi dovrebbero invitare?)

Il buffone Filippo rappresenta un tipo umano di cui la letteratura greca, contrariamente a quella latina, è complessivamente piuttosto sguarnita, forse perché solitamente caratterizzata da un registro più intellettualistico e “alto”. Tuttavia alcune atmosfere e situazioni di questo dialogo (tra le quali quelle di questo brano) possono ricordare, seppur vagamente, quelle di una delle più famose e più caratteristiche opere della letteratura latina: il Satyricon di Petronio Arbitro.

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TESTO ORIGINALE:

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[11] ἐκεῖνοι μὲν οὖν σιωπῇ ἐδείπνουν, ὥσπερ τοῦτο ἐπιτεταγμένον αὐτοῖς ὑπὸ κρείττονός τινος. Φίλιππος δ᾽ ὁ γελωτοποιὸς κρούσας τὴν θύραν εἶπε τῷ ὑπακούσαντι εἰσαγγεῖλαι ὅστις τε εἴη καὶ δι᾽ ὅ τι κατάγεσθαι βούλοιτο, συνεσκευασμένος τε παρεῖναι ἔφη πάντα τὰ ἐπιτήδεια ὥστε δειπνεῖν τἀλλότρια, καὶ τὸν παῖδα δὲ ἔφη πάνυ πιέζεσθαι διά τε τὸ φέρειν μηδὲν καὶ διὰ τὸ ἀνάριστον εἶναι.

[12] ὁ οὖν Καλλίας ἀκούσας ταῦτα εἶπεν: ἀλλὰ μέντοι, ὦ ἄνδρες, αἰσχρὸν στέγης γε φθονῆσαι: εἰσίτω οὖν. καὶ ἅμα ἀπέβλεψεν εἰς τὸν Αὐτόλυκον, δῆλον ὅτι ἐπισκοπῶν τί ἐκείνῳ δόξειε τὸ σκῶμμα εἶναι.

[13] ὁ δὲ στὰς ἐπὶ τῷ ἀνδρῶνι ἔνθα τὸ δεῖπνον ἦν εἶπεν: ὅτι μὲν γελωτοποιός εἰμι ἴστε πάντες: ἥκω δὲ προθύμως νομίσας γελοιότερον εἶναι τὸ ἄκλητον ἢ τὸ κεκλημένον ἐλθεῖν ἐπὶ τὸ δεῖπνον. κατακλίνου τοίνυν, ἔφη ὁ Καλλίας. καὶ γὰρ οἱ παρόντες σπουδῆς μέν, ὡς ὁρᾷς, μεστοί, γέλωτος δὲ ἴσως ἐνδεέστεροι.

[14] δειπνούντων δὲ αὐτῶν ὁ Φίλιππος γελοῖόν τι εὐθὺς ἐπεχείρει λέγειν, ἵνα δὴ ἐπιτελοίη ὧνπερ ἕνεκα ἐκαλεῖτο ἑκάστοτε ἐπὶ τὰ δεῖπνα. ὡς δ᾽ οὐκ ἐκίνησε γέλωτα, τότε μὲν ἀχθεσθεὶς φανερὸς ἐγένετο. αὖθις δ᾽ ὀλίγον ὕστερον ἄλλο τι γελοῖον ἐβούλετο λέγειν. ὡς δὲ οὐδὲ τότε ἐγέλασαν ἐπ᾽ αὐτῷ, ἐν τῷ μεταξὺ παυσάμενος τοῦ δείπνου συγκαλυψάμενος κατέκειτο.

[15] καὶ ὁ Καλλίας, τί τοῦτ᾽, ἔφη, ὦ Φίλιππε; ἀλλ᾽ ἢ ὀδύνη σε εἴληφε; καὶ ὃς ἀναστενάξας εἶπε: ναὶ μὰ Δί᾽, ἔφη, ὦ Καλλία, μεγάλη γε: ἐπεὶ γὰρ γέλως ἐξ ἀνθρώπων ἀπόλωλεν, ἔρρει τὰ ἐμὰ πράγματα. πρόσθεν μὲν γὰρ τούτου ἕνεκα ἐκαλούμην ἐπὶ τὰ δεῖπνα, ἵνα εὐφραίνοιντο οἱ συνόντες δι᾽ ἐμὲ γελῶντες: νῦν δὲ τίνος ἕνεκα καὶ καλεῖ μέ τις; οὔτε γὰρ ἔγωγε σπουδάσαι ἂν δυναίμην μᾶλλον ἤπερ ἀθάνατος γενέσθαι, οὔτε μὴν ὡς ἀντικληθησόμενος καλεῖ μέ τις, ἐπεὶ πάντες ἴσασιν ὅτι ἀρχὴν οὐδὲ νομίζεται εἰς τὴν ἐμὴν οἰκίαν δεῖπνον προσφέρεσθαι. καὶ ἅμα λέγων ταῦτα ἀπεμύττετό τε καὶ τῇ φωνῇ σαφῶς κλαίειν ἐφαίνετο.

[16] πάντες μὲν οὖν παρεμυθοῦντό τε αὐτὸν ὡς αὖθις γελασόμενοι καὶ δειπνεῖν ἐκέλευον, Κριτόβουλος δὲ καὶ ἐξεκάγχασεν ἐπὶ τῷ οἰκτισμῷ αὐτοῦ. ὁ δ᾽ ὡς ᾔσθετο τοῦ γέλωτος, ἀνεκαλύψατό τε καὶ τῇ ψυχῇ παρακελευσάμενος θαρρεῖν, ὅτι ἔσονται συμβολαί, πάλιν ἐδείπνει.

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http://www.perseus.tufts.edu/hopper/text?doc=Perseus%3Atext%3A1999.01.0211%3Atext%3DSym.%3Achapter%3D1%3Asection%3D11

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Vedi anche:

https://instagram.com/karolaytatiana19

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TRADUZIONE DI MARIO VITALI:

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11 E così si pranzava in silenzio, come sotto il dominio di una potenza superiore… quand’ecco bussò alla porta Filippo, il solito buffone, che, rivolto al portiere gli disse di annunciarlo e di dirgli che voleva essere invitato. “Eccomi qui – berciava – con tutto il necessario per pranzare… a spese altrui! E guardate il mio servo – continuò – è letteralmente sfinito dalla fatica di portare… niente, tranne lo stomaco… vuoto!”

12 A queste parole, “Amici – disse Callia – mi sembrerebbe brutto non concedergli almeno di mettersi al riparo; e dunque, lasciamolo entrare!”, e intanto guardava Autolico, ovviamente per vedere che effetto gli avesse fatto la sua spiritosaggine. 13 Allora Filippo, seduto sulla soglia della sala, “Io sono un buffone – disse – lo sapete tutti, e mi sono affrettato a venire, ben sapendo che presentarsi a un banchetto senza invito sarebbe stato più spiritoso che venirci da invitato”.

“E tu accomodati – disse Callia – qui sono tutti troppo seri, vedi bene; forse manca loro un po’ di allegria”.

14 E mentre il banchetto proseguiva, Filippo cercò subito di dire qualche buffonata: voleva essere all’altezza della fama che gli assicurava ogni volta un invito a pranzo. Ma nessuno rise, e lui ci rimase malissimo. Lasciò passare qualche istante, e ne lanciò un’altra: silenzio assoluto. Allora smise di mangiare, si coprì il volto col mantello e si lanciò lungo disteso sul divano.

15 E Callia: “Che c’è, Filippo, ti hanno preso le doglie?”

“Sicuro, Callia – rispose quello – e terribili per di più: se gli uomini hanno perso la voglia di ridere, io sono rovinato. Fino ad ora mi convocavano tutti perché i convitati si divertissero alle mie trovate. Ma ora? Perché mi dovrebbero invitare? Per me fare la persona seria è più difficile che diventare immortale; d’altra parte nessuno mi inviterà mai nella speranza di essere invitato a sua volta, perché tutti sanno che la mia casa non ha l’abitudine di offrire banchetti”, e intanto si soffiava il naso, e dalla voce sembrava proprio lì lì per piangere, 16 tanto che tutti presero a consolarlo:

“Vedrai che poi rideremo, ma ora mangia, via!”, mentre Critobulo si spanciava dal ridere a udire le sue lagne. Filippo, sentendolo, si scoprì il volto e, rincuorata l’anima sua che ancora ci sarebbero state battaglie pappatorie, riprese a mangiare.

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TRADUZIONE SPIEGATA:

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[11] ἐκεῖνοι μὲν οὖν σιωπῇ ἐδείπνουν, ὥσπερ τοῦτο ἐπιτεταγμένον αὐτοῖς ὑπὸ κρείττονός τινος. Φίλιππος δ᾽ ὁ γελωτοποιὸς κρούσας τὴν θύραν εἶπε τῷ ὑπακούσαντι εἰσαγγεῖλαι ὅστις τε εἴη καὶ δι᾽ ὅ τι κατάγεσθαι βούλοιτο, συνεσκευασμένος τε παρεῖναι ἔφη πάντα τὰ ἐπιτήδεια ὥστε δειπνεῖν τἀλλότρια, καὶ τὸν παῖδα δὲ ἔφη πάνυ πιέζεσθαι διά τε τὸ φέρειν μηδὲν καὶ διὰ τὸ ἀνάριστον εἶναι.

QUELLI DUNQUE CENAVANO IN SILENZIO, COME QUESTO ESSENDO STATO ORDINATO/ COME SE QUESTA COSA FOSSE STATA ORDINATA AD ESSI DA QUALCUNO PIÙ FORTE/DA UN’ENTITÀ SUPERIORE (ἐκεῖνοι μὲν οὖν σιωπῇ ἐδείπνουν, ὥσπερ τοῦτο ἐπιτεταγμένον αὐτοῖς ὑπὸ κρείττονός τινος). FILIPPO IL BUFFONE AVENDO BATTUTO ALLA PORTA DISSE AL PORTINAIO DI ANNUNCIARE CHI FOSSE E PERCHÉ VOLESSE ENTRARE (Φίλιππος δ᾽ ὁ γελωτοποιὸς κρούσας τὴν θύραν εἶπε τῷ ὑπακούσαντι εἰσαγγεῖλαι ὅστις τε εἴη καὶ δι᾽ ὅ τι κατάγεσθαι βούλοιτο), E PREPARANDOSI A ENTRARE DISSE LE COSE OPPORTUNE COSÌ DA/PER DIVORARE LE COSE ALTRUI/I BENI ALTRUI (συνεσκευασμένος τε παρεῖναι ἔφη πάντα τὰ ἐπιτήδεια ὥστε δειπνεῖν τἀλλότρια), E IL RAGAZZO (EGLI…) DICEVA ESSERE OPPRESSO/CHE SOFFRISSE PER IL NON PORTARE NULLA/PER IL FATTO DI VENIRE A MANI NUDE E PER L’ESSERE A DIGIUNO (καὶ τὸν παῖδα δὲ ἔφη πάνυ πιέζεσθαι διά τε τὸ φέρειν μηδὲν καὶ διὰ τὸ ἀνάριστον εἶναι).

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ἐπιτεταγμένον: partic. (medio)-passivo perfetto di ἐπι-τάσσω: ordino, impongo, comando (τάσσω: ordino, impongo; tassonomia: classificazione gerarchica di enti, in base a un ordine dato)

κρείττονός: genit. masch. sing. di κρείσσων,ονος [κρείττων,ονος]: più forte; vedi κράτος: forza

κρούσας: partic. sing. masch. aoristo att. di κρούω: batto

ὅστις καὶ δι᾽ ὅ τι: ὅστις e ὅτι sono qui pronomi interrogativi e introducono quindi due proposiz. interrog. indirette

συνεσκευασμένος: partic. medio-(passivo) aoristo di συν-σκευάζω: allestisco; medio: mi preparo a; σκευάζω: allestisco, preparo

[12] ὁ οὖν Καλλίας ἀκούσας ταῦτα εἶπεν: ἀλλὰ μέντοι, ὦ ἄνδρες, αἰσχρὸν στέγης γε φθονῆσαι: εἰσίτω οὖν. καὶ ἅμα ἀπέβλεψεν εἰς τὸν Αὐτόλυκον, δῆλον ὅτι ἐπισκοπῶν τί ἐκείνῳ δόξειε τὸ σκῶμμα εἶναι.

DUNQUE/ALLORA CALLIA, AVENDO SENTITO QUESTE COSE, DISSE: “MA CERTAMENTE, O SIGNORI, (È…) COSA BRUTTA PER LA VERITÀ NEGARE UN TETTO (ὁ οὖν Καλλίας ἀκούσας ταῦτα εἶπεν: ἀλλὰ μέντοι, ὦ ἄνδρες, αἰσχρὸν στέγης γε φθονῆσαι): ENTRI DUNQUE (εἰσίτω οὖν). E ALLO STESSO TEMPO VOLGEVA LO SGUARDO A AUTOLICO, (ERA…) CHIARO CHE OSSERVANDO(LO)/POICHÉ LO OSSERVAVA A QUELLO SEMBRASSE CHE (CIÒ CHE AVEVA DETTO…) FOSSE UNA QUALCHE FACEZIA (δῆλον ὅτι ἐπισκοπῶν τί ἐκείνῳ δόξειε τὸ σκῶμμα εἶναι= ἐκείνῳ δόξειε τὸ σκῶμμα τί εἶναι).

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στέγης γε φθονῆσαι: φθονέω: invidio, vedo di malocchio, rifiuto, nego; φθονέω στέγης: nego o rifiuto un tetto

εἰσίτω: 3^ sing. imperat. di εἴσ-ειμι: vado dentro, entro; εἶμι: vado, εἰμί: sono; imperativo di εἶμι: vado: ἴθι ἴτω – ἴτε ἴτων; imperat. di εἰμί: sono: ἴσθι ἔστω – ἔστε ἔστων

[13] ὁ δὲ στὰς ἐπὶ τῷ ἀνδρῶνι ἔνθα τὸ δεῖπνον ἦν εἶπεν: ὅτι μὲν γελωτοποιός εἰμι ἴστε πάντες: ἥκω δὲ προθύμως νομίσας γελοιότερον εἶναι τὸ ἄκλητον ἢ τὸ κεκλημένον ἐλθεῖν ἐπὶ τὸ δεῖπνον. κατακλίνου τοίνυν, ἔφη ὁ Καλλίας. καὶ γὰρ οἱ παρόντες σπουδῆς μέν, ὡς ὁρᾷς, μεστοί, γέλωτος δὲ ἴσως ἐνδεέστεροι.

QUELLO STANDO/RESTANDO NELL’ANDRONE, DOVE ERA/SI SVOLGEVA IL PRANZO, DISSE (δὲ στὰς ἐπὶ τῷ ἀνδρῶνι ἔνθα τὸ δεῖπνον ἦν εἶπεν): “CHE SONO UN BUFFONE (LO…) SAPETE TUTTI (ὅτι μὲν γελωτοποιός εἰμι ἴστε πάντες); SONO GIUNTO PRONTAMENTE AVENDO RITENUTO ESSERE PIÙ RISIBILE/DIVERTENTE (ἥκω δὲ προθύμως νομίσας γελοιότερον εἶναι) IL VENIRE NON CHIAMATO CHE (IL VENIRE…) CHIAMATO AL PRANZO/AL BANCHETTO (τὸ ἄκλητον ἢ τὸ κεκλημένον ἐλθεῖν ἐπὶ τὸ δεῖπνον; γελοιότερον εἶναι τὸ ἄκλητον (ἐλθεῖν) ἢ τὸ κεκλημένον ἐλθεῖν: nota che ἄκλητον e κεκλημένον si riferisce al verbo ἐλθεῖν). “ACCOMODATI DUNQUE”, DISSE CALLIA (κατακλίνου τοίνυν, ἔφη ὁ Καλλίας). E INFATTI I PRESENTI (SONO…) DI SOLLECITUNE/SERIETÀ DA UNA PARTE, COME VEDRESTI/COME PUOI VEDERE, PIENI (καὶ γὰρ οἱ παρόντες σπουδῆς μέν, ὡς ὁρᾷς, μεστοί), DI RISO/DIVERTIMENTO DALL’ALTRA EGUALMENTE/PARIMENTI (SONO…) PIÙ BISOGNOSI (γέλωτος δὲ ἴσως ἐνδεέστεροι)/GLI INVITATI DIFATTI, COME PUOI VEDERE, SONO PIENI DI SOLLECITUDINE, MA IN REALTÀ AVREBBERO PIÙ BISOGNO DI DIVERTIMENTO.

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στὰς: partic. aoristo attivo di ἵστημι: sto

ἥκω: “sono giunto”

ἄκλητον: “non chiamato”: alfa privativo + κλ->radice di καλέω: chiamo

κεκλημένον: partic. (medio)-passivo perfetto di καλέω

κατακλίνου: 2^ sing. imperat. medio-(passivo) di κατα-κλίνω: depongo; medio: mi adagio; κλίνω: inclino, piego

ἐνδεέστεροι: nomin. masch. plur. dell’aggett. compattivo ἐν-δεής,ες: bisognoso; δέομαι: ho bisogno

[14] δειπνούντων δὲ αὐτῶν ὁ Φίλιππος γελοῖόν τι εὐθὺς ἐπεχείρει λέγειν, ἵνα δὴ ἐπιτελοίη ὧνπερ ἕνεκα ἐκαλεῖτο ἑκάστοτε ἐπὶ τὰ δεῖπνα. ὡς δ᾽ οὐκ ἐκίνησε γέλωτα, τότε μὲν ἀχθεσθεὶς φανερὸς ἐγένετο. αὖθις δ᾽ ὀλίγον ὕστερον ἄλλο τι γελοῖον ἐβούλετο λέγειν. ὡς δὲ οὐδὲ τότε ἐγέλασαν ἐπ᾽ αὐτῷ, ἐν τῷ μεταξὺ παυσάμενος τοῦ δείπνου συγκαλυψάμενος κατέκειτο.

E CENANDO QUELLI/MENTRE SI CENAVA, FILIPPO SUBITÒ PRESE A DIRE QUALCOSA DI SPIRITOSO (δειπνούντων δὲ αὐτῶν [->genit. assol.] ὁ Φίλιππος γελοῖόν τι εὐθὺς ἐπεχείρει λέγειν), AFFINCHÉ COMPISSE/PER FARE (LE COSE…) (ἵνα δὴ ἐπιτελοίη) A CAUSA DELLE QUALI (ὧνπερ ἕνεκα) VENIVA CHIAMATO OGNI VOLTA AI PRANZI/ BANCHETTI (ἐκαλεῖτο ἑκάστοτε ἐπὶ τὰ δεῖπνα). POICHÉ TUTTAVIA NON MOSSE IL RISO, ALLORA ESSENDOSI ANGUSTIATO (EGLI…) DIVENNE CHIARO/DIVENNE CHIARO CHE ERA ANGUSTIATO (ὡς δ᾽ οὐκ ἐκίνησε γέλωτα, τότε μὲν ἀχθεσθεὶς φανερὸς ἐγένετο). DI NUOVO POCO DOPO DECISE DI DIRE QUALCOS’ALTRO DI DIVERTENTE (αὖθις δ᾽ ὀλίγον ὕστερον ἄλλο τι γελοῖον ἐβούλετο λέγειν). MA POICHÉ NEMMENO ALLORA RISERO PER QUESTO, ESSENDOSI FERMATO NEL MEZZO DEL BANCHETTO (ὡς δὲ οὐδὲ τότε ἐγέλασαν ἐπ᾽ αὐτῷ, παυσάμενος ἐν τῷ μεταξὺ τοῦ δείπνου) DOPO ESSERSI VELATO SI MISE A GIACERE (συγκαλυψάμενος κατέκειτο).

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ἀχθεσθεὶς: partic. aoristo (forma passiva con valore attivo) di ἄχθομαι: sono afflitto, soffro

ἕνεκα: a causa di…, dove l’oggetto è preposto anziché postposto

παυσάμενος: partic. aoristo att. di παύω: cesso di, smetto di

συγκαλυψάμενος: partic. aoristo medio di συγ-καλύπτω: avvolgo con (συν), nacondo; medio: mi avvolgo con, mi copro; καλύπτω: copro, nascondo

[15] καὶ ὁ Καλλίας, τί τοῦτ᾽, ἔφη, ὦ Φίλιππε; ἀλλ᾽ ἢ ὀδύνη σε εἴληφε; καὶ ὃς ἀναστενάξας εἶπε: ναὶ μὰ Δί᾽, ἔφη, ὦ Καλλία, μεγάλη γε: ἐπεὶ γὰρ γέλως ἐξ ἀνθρώπων ἀπόλωλεν, ἔρρει τὰ ἐμὰ πράγματα. πρόσθεν μὲν γὰρ τούτου ἕνεκα ἐκαλούμην ἐπὶ τὰ δεῖπνα, ἵνα εὐφραίνοιντο οἱ συνόντες δι᾽ ἐμὲ γελῶντες: νῦν δὲ τίνος ἕνεκα καὶ καλεῖ μέ τις; οὔτε γὰρ ἔγωγε σπουδάσαι ἂν δυναίμην μᾶλλον ἤπερ ἀθάνατος γενέσθαι, οὔτε μὴν ὡς ἀντικληθησόμενος καλεῖ μέ τις, ἐπεὶ πάντες ἴσασιν ὅτι ἀρχὴν οὐδὲ νομίζεται εἰς τὴν ἐμὴν οἰκίαν δεῖπνον προσφέρεσθαι. καὶ ἅμα λέγων ταῦτα ἀπεμύττετό τε καὶ τῇ φωνῇ σαφῶς κλαίειν ἐφαίνετο.

E CALLIA “COSA (È…) QUESTO?/CHE SUCCEDE?” DISSE “O FILIPPO (καὶ ὁ Καλλίας, τί τοῦτ᾽, ἔφη, ὦ Φίλιππε): FORSE LA TRISTEZZA TI HA PRESO? (ἀλλ᾽ ἢ [->Ma o…=Forse che?] ὀδύνη σε εἴληφε)” E IL QUALE/QUELLO GEMENDO DISSE: “CERTO PER ZEUS” DISSE “CALLIA, PURE GRANDE; DA QUANDO IL RISO DAGLI UOMINI ROVINÒ/È SCAPPATO (καὶ ὃς ἀναστενάξας εἶπε: ναὶ μὰ Δί᾽, ἔφη, ὦ Καλλία, μεγάλη γε: ἐπεὶ γὰρ γέλως ἐξ ἀνθρώπων ἀπόλωλεν), BARCOLLANO I MIEI AFFARI/TRABALLA LA MIA VITA (ἔρρει τὰ ἐμὰ πράγματα). PRIMA CERTAMENTE INFATTI A CAUSA DI ESSO ERO CHIAMATO AI BANCHETTI , AFFINCHÈ FOSSERO RALLEGRATI I CONVITATI RIDENDO PER ME/A CAUSA MIA (πρόσθεν μὲν γὰρ τούτου ἕνεκα ἐκαλούμην ἐπὶ τὰ δεῖπνα, ἵνα εὐφραίνοιντο οἱ συνόντες δι᾽ ἐμὲ γελῶντες); ORA PERÒ A CAUSA DI COSA (νῦν δὲ τίνος ἕνεκα) E CHI MI CHIAMA (καὶ καλεῖ μέ τις)? NÉ INFATTI IO POTREI DARMI DA FARE/IMPEGNARMI/ESSERE SERIO PIÙ CHE (οὔτε γὰρ ἔγωγε ἂν δυναίμην σπουδάσαι μᾶλλον ἤπερ) DIVENTARE IMMORTALE (ἀθάνατος γενέσθαι), NÉ IN VERITÀ QUALCUNO MI CHIAMA (οὔτε μὴν ὡς καλεῖ μέ τις) IN QUANTO CHIAMATO (IO…) DI RIMANDO (ὡς ἀντικληθησόμενος)/NÉ QUALCUNO MI INVITA PERCHÉ IO L’ABBIA A MIA VOLTA INVITATO, POICHÉ TUTTI SANNO CHE (ἐπεὶ πάντες ἴσασιν ὅτι) NEMMENO È RITENUTO/SI RITIENE RIGUARDO ALLA MIA CASA (οὐδὲ νομίζεται εἰς τὴν ἐμὴν οἰκίαν) (ESSERVI…) IL POTERE/LA CAPACITÀ (ἀρχὴν; infinitiva con verbo sottinteso) DI DARE UN PRANZO (δεῖπνον προσφέρεσθαι). E ALLO STESSO TEMPO, DICENDO QUESTE COSE (καὶ ἅμα λέγων ταῦτα), SI SOFFIAVA IL NASO E (ἀπεμύττετό τε καὶ) DALLA VOCE SEMBRAVA CHIARAMENTE PIANGERE (τῇ φωνῇ ἐφαίνετο σαφῶς κλαίειν).

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ἔρρει: ἔρρω: erro, vago senza una meta, barcollo, traballo…

σπουδάσαι: inf. aoristo att. di σπουδάζω: mi do da fare, mi occupo, mi preoccupo di…; vedi σπουδή: impegno, sollecitudine, serietà

μᾶλλον ἤπερ: “più che”…; ἤπερ= ἤ = congiunz. disgiuntiva “o…”; congiunz. comparativa “…che”, latino quam

ἴσασιν: 3ì plur. indic. att. di οἴδα: ho visto, quindi: conosco, so

[16] πάντες μὲν οὖν παρεμυθοῦντό τε αὐτὸν ὡς αὖθις γελασόμενοι καὶ δειπνεῖν ἐκέλευον, Κριτόβουλος δὲ καὶ ἐξεκάγχασεν ἐπὶ τῷ οἰκτισμῷ αὐτοῦ. ὁ δ᾽ ὡς ᾔσθετο τοῦ γέλωτος, ἀνεκαλύψατό τε καὶ τῇ ψυχῇ παρακελευσάμενος θαρρεῖν, ὅτι ἔσονται συμβολαί, πάλιν ἐδείπνει.

TUTTI DUNQUE E LO INCORAGGIAVANO IN QUANTO DI NUOVO STANTI PER RIDERE/DICENDO CHE AVREBBERO RISO DI NUOVO AI SUOI SCHERZI (πάντες μὲν οὖν παρεμυθοῦντό τε αὐτὸν ὡς αὖθις γελασόμενοι->il partic. futuro (“stanti per ridere”) dà il senso di qualcosa che deve accadere in futuro) E (GLI…) CHIEDEVANO DI MANGIARE (καὶ δειπνεῖν ἐκέλευον), E CRITOBULO SCOPPIÒ A RIDERE PER IL LAMENTO DI QUELLO (Κριτόβουλος δὲ καὶ ἐξεκάγχασεν ἐπὶ τῷ οἰκτισμῷ αὐτοῦ). E QUELLO COME VIDE IL RISO (ὁ δ᾽ ὡς ᾔσθετο τοῦ γέλωτος), SI SCOPRÌ E (ἀνεκαλύψατό τε καὶ) NELL’ANIMA CONSIGLIANDOSI DI AVERE CORAGGIO/RECUPERANDO FIDUCIA NELL’ANIMO (τῇ ψυχῇ παρακελευσάμενος θαρρεῖν), POICHÉ VI SARANNO INCONTRI/POICHÉ VI SAREBBERO STATI ALTRI INVITI A CENA (ὅτι ἔσονται συμβολαί), DI NUOVO CENAVA (πάλιν ἐδείπνει).

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ἐξεκάγχασεν: 3^ sing. indic. attivo aoristo di ἐκ-καγχάζω: scoppio a ridere; καγχάζω: rido

ᾔσθετο: 3^ sing. indic. imperfetto di αἰσθάνομαι: percepisco, avverto

παρακελευσάμενος θαρρεῖν: “esortandosi ad essere coraggioso”; παρακελευσάμενος: partic. medio aoristo da παρα-κελέυω: prescrivo, medio: mi incoraggio, mi esorto; κελέυω: incoraggio, esorto; θαρρέω: sono coraggioso

συμβολαί: “incontri”, da: σύν (con, assieme) + βάλλω (getto, mi getto, vado)

UNA LETTERA PRIVATA DI CICERONE

29 Dic

UNA LETTERA PRIVATA DI CICERONE

(Cicerone: Ad familiares; 9, 20)

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È un Cicerone sconfitto e amareggiato quello che emerge da questa lettera, scritta quando – in seguito alla vittoria di Cesare, aspirante dittatore e nemico dell’antica Repubblica romana, su Pompeo (colui che, tra i due, Cicerone aveva deciso di appoggiare) – la carriera politica del celebre oratore era in pratica giunta al termine.

Il tono dell’epistola è tanto più amaro, in quanto l’autore cerca (o finge di cercare) di scherzare sulla propria condizione di recluso con il suo amico Peto, affetto a sua volta da una qualche malattia. Il tono usato è quello di paziente accondiscendenza di fronte a mali inevitabili (i suoi e quelli dell’amico) e di finto entusiasmo per una sua presunta conversione alla filosofia Epicurea… (integram famem ad ovum affero, itaque usque ad assum vitulinum opera perducitur…; in Epicuri nos adversarii nostri castra coniecimus).

È in ogni caso una lettera molto bella e umana, piena di sottintesi e di sfumature (ad esempio quando parla di Irzio, un ex-generale di Cesare, cui dice di avere offerto una cena…, o quando, più avanti, allude alla propria condizione di prigioniero in casa propria, di fronte al quale però i vincitori cesariani, “hos laetos victores”, ostentano un affettato rispetto) la cui comprensione rende la lettura di questo scritto senza dubbio molto più gustosa.

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TESTO LATINO:

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CICERO PAETO.

Dupliciter delectatus sum tuis litteris, et quod ipse risi et quod te intellexi iam posse ridere; me autem a te, ut scurram velitem, malis oneratum esse non moleste tuli: illud doleo, in ista loca venire me, ut constitueram, non potuisse; habuisses enim non hospitem, sed contubernalem. At quem virum! non eum, quem tu es solitus promulside conficere: integram famem ad ovum affero, itaque usque ad assum vitulinum opera perducitur. Illa mea, quae solebas antea laudare, “O hominem facilem! O hospitem non gravem!” abierunt: nunc omnem nostram de re publica curam, cogitationem de dicenda in senatu sententia, commentationem causarum abiecimus, in Epicuri nos adversarii nostri castra coniecimus, nec tamen ad hanc insolentiam sed ad illam tuam lautitiam, veterem dico, cum in sumptum habebas, etsi numquam plura praedia habuisti. Proinde te para: cum homine et edaci tibi res est et qui iam aliquid intelligat, ὀψιμαθεῖς autem homines scis quam insolentes sint; dediscendae tibi sunt sportellae et artolagani tui. Nos iam ex artis tantum habemus, ut Verrium tuum et Camillum—qua munditia homines, qua elegantia!—vocare saepius audeamus; sed vide audaciam: etiam Hirtio coenam dedi, sine pavone tamen; in ea coena cocus meus praeter ius fervens nihil non potuit imitari. Haec igitur est nunc vita nostra: mane salutamus domi et bonos viros multos, sed tristes, et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose et peramanter observant; ubi salutatio defluxit, litteris me involvo: aut scribo aut lego; veniunt etiam, qui meaudiant quasi doctum hominem, quia paullo sum quam ipsi doctior; inde corpori omne tempus datur. Patriam eluxi iam et gravius et diutius, quam ulla mater unicum filium. Sed cura, si me amas, ut valeas, ne ego te iacente bona tua comedim; statui enim tibi ne aegroto quidem parcere.

Da: Cicero: ad Familiares IX (thelatinlibrary.com)

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TRADUZIONE LIBERA (mia):

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La tua lettera mi ha rallegrato su due fronti: perché mi ha fatto ridere e perché mi ha dimostrato che anche tu hai voglia di ridere; di buon cuore ho sopportato di essere bersagliato dalle tue mele, come un buffone velite (il velite è un soldato che combatte in ordine sparso e non inquadrato, metaforicamente significa un provocatore…). Mi dispiace di non essere potuto venire dalle tue parti, come avevo deciso: in me avresti trovato non un ospite, ma un compagno di bagordi! E che uomo… non certo quello che sei solito soddisfare con un antipasto. Il mio appetito resta integro fino alle uova (è l’inizio del pasto…), e il mio pasto continua addirittura fino all’arrosto di vitello! Tutto ciò per cui eri solito lodarmi (O uomo poco esigente, o ospite frugale!) oramai non c’è più… oramai ho messo da parte tutta l’antica cura per lo Stato, il lavorio per ciò che dovrò dire in Senato, i pensieri sulle cause in tribunale, e mi sono trasferito negli accampamenti del mio antico nemico, Epicuro, e non con questa intemperanza di oggi, ma con quella tua raffinata eleganza – quella di una volta dico, di quando ancora avevi soldi da spendere, anche se mai hai posseduto più poderi di adesso (ma di scarso valore…n.d.r.)

Dunque preparati: avrai a che fare con un vero uomo e per di più vorace, che oramai ha imparato qualcosa della vita! Sai fino a che punto possono essere sfacciati coloro che imparano tardi a vivere! Dimenticati da subito delle tue sportelle di cibo e delle tue focacce! Sono già tanto esperto nell’arte culinaria da aver osato invitare più di una volta il tuo Verrio e Camillo (…o che uomini eleganti e raffinati!). E ho offerto una cena anche a Irzio (generale di Cesare, nemico politico di Cicerone), anche se senza il pavone: il mio cuoco infatti, mettendoci tutto il suo impegno, è riuscito a riprodurre tutto a dovere, tranne quel piatto!

Questa insomma, è oramai la mia vita. Alla mattina mi dedico al saluto in casa (la salutatio è un rito consistente nella visita mattutina di clienti ed amici), e di molti uomini buoni, ma tristi, e di quelli felici, che hanno vinto, e che mi ossequiano però molto rispettosamente e amabilmente. Quando è finito il rito del saluto, mi immergo nelle lettere; oppure scrivo, o leggo; arrivano pure quelli che dicono di ascoltarmi come un dotto uomo, solo perché sono un po’ più dotto di loro. Infine il resto del tempo mi dedico al corpo. Già ho pianto la patria più dolorosamente e a lungo di una madre che pianga il suo unico figlio.

Ma se mi ami, abbi cura di rimetterti e di stare bene, perché sai, mentre sei costretto a letto, rischi che ti divori tutti i beni: ho deciso di non risparmiarti nulla, neppure se sei malato.

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Altra traduzioneSplash Latino – Cicerone – Epistulae – Ad Familiares – 9 – 20

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TRADUZIONE LETTERALE CON NOTE:

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Cicero Paeto.

Cicerone a Peto:

Dupliciter delectatus sum tuis litteris, et quod ipse risi et quod te intellexi iam posse ridere; me autem a te, ut scurram velitem, malis oneratum esse non moleste tuli:

Sono stato doppiamente allietato dalla tua lettera (tuis litteris): sia perché io stesso (ipse) ho riso, sia perché ho compreso che oramai (iam) anche tu sei capace di ridere (te posse ridere); non ho preso male (non moleste tuli) di essere stato bersagliato con/di mele (me malis oneratum esse) da te, come un buffone velite (ut scurram velitem):

illud doleo, in ista loca venire me, ut constitueram, non potuisse; habuisses enim non hospitem, sed contubernalem.

di questo mi dolgo: di non essere potuto venire (venire me non potuisse) in questi luoghi, come avevo stabilito; avresti avuto infatti (habuisses enim) non un ospite ma un compagno di divertimento (contubernalem).

At quem virum! non eum, quem tu es solitus promulside conficere: integram famem ad ovum affero, itaque usque ad assum vitulinum opera perducitur.

E quale/che uomo! Non quello che sei solito soddisfare con un antipasto (promulside conficere): mi porto (affero) intera la fame fino all’uovo, perciò il lavoro/la mia cena continua fino all’arrosto di vitello (usque ad assum vitulinum).

Illa mea, quae solebas antea laudare, “O hominem facilem! O hospitem non gravem!” abierunt: nunc omnem nostram de re publica curam, cogitationem de dicenda in senatu sententia, commentationem causarum abiecimus, in Epicuri nos adversarii nostri castra coniecimus, nec tamen ad hanc insolentiam sed ad illam tuam lautitiam, veterem dico, cum in sumptum habebas, etsi numquam plura praedia habuisti.

Le cose che solevi lodare una volta (antea laudare), “O uomo poco esigente! O ospite non/poco dispendioso!”, se ne sono andate: ora tutta la nostra/mia preoccupazione per lo stato, lo scervellarmi (cogitationem) sul pensiero da esprimere in senato (de sententia dicenda in senatu), lo studio della cause legali (commentationem causarum) li abbiamo/ho abbandonati (abiecimus); ci siamo gettati/mi sono butato (nos coniecimus) negli accampamenti di Epicuro, nostro/mio avversario (in castra Epicuri adversarii nostri), non tuttavia/non però in questa mancanza di moderazione (volgare…)/in una comune mancanza di moderazione (ad hanc insolentiam) ma in quella tua eleganza lussuosa (ad illam tuam lautitiam), intendo quella di una volta (veterem dico), quando avevi (soldi da spendere…) per il lusso (in sumptum habebas), anche se mai hai avuto/ottenuto (habuisti: perfetto con valore risultativo) più possedimenti.

Proinde te para: cum homine et edaci tibi res est et qui iam aliquid intelligat, ὀψιμαθεῖς autem homines scis quam insolentes sint; dediscendae tibi sunt sportellae et artolagani tui.

Dunque preparati: hai da trattare (tibi res est) con un uomo e pure vorace (homini et edaci) e che ormai potrebbe avere imparato qualcosa (sulla vita…) (qui iam aliquid intelligat): e poi quelli che imparano in ritardo (ὀψιμαθεῖς *) sai quanto siano insolenti; devi dimenticare (dediscendae tibi sunt) le (tue…) piccole sporte (di cibo…) e le tue focacce.

* (ὀψέ= tardi; μανθάνω=imparo)

Nos iam ex artis tantum habemus, ut Verrium tuum et Camillum—qua munditia homines, qua elegantia!—vocare saepius audeamus; sed vide audaciam: etiam Hirtio coenam dedi, sine pavone tamen; in ea coena cocus meus praeter ius fervens nihil non potuit imitari.

Noi oramai abbiamo tanto d’arte/siamo tanti esperti in quest’arte (ex artis tantum habemus), che (sempre…) più spesso osiamo invitare (…ut vocare saepius audeamus) il tuo Verrio e (il tuo…) Camillo – uomini di quale pulizia! Di quale eleganza! (qua munditia… qua elegantia: sono due ablativi di qualità); ma vedi l’audacia (mia…): anche a Irzio ho offerto una cena, senza il pavone però; in questa cena il mio cuoco, affaccendandosi (fervens), nulla non è riuscito a imitare/ha imitato tutto (nihil non potuit imitari) a parte questo/il pavone (praeter ius).

Haec igitur est nunc vita nostra: mane salutamus domi et bonos viros multos, sed tristes, et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose et peramanter observant; ubi salutatio defluxit, litteris me involvo: aut scribo aut lego; veniunt etiam, qui me audiant quasi doctum hominem, quia paullo sum quam ipsi doctior; inde corpori omne tempus datur.

Questa dunque è ormai la nostra/mia vita: al mattino (mane) salutiamo (i membri…) della casa (salutamus domi) e molte persone onorevoli, e questi vincitori felici (hos laetos victores) che tuttavia (quidem) molto cortesemente e amabilmente (perofficiose et peramanter) mi ossequiano (me observant); quando il rituale del saluto (salutatio) è terminato, mi dedico alle lettere: oppure scrivo o leggo; vengono anche (quelli) che mi ascolterebbero/dicono di ascoltarmi (audiant: congiunt. obliquo, che esprime un punto di vista soggettivo) come se fossi (quasi) un uomo dotto, poiché sono un po’ più dotto di loro (quam ipsi); quindi/per il resto tutto il tempo viene dedicato al corpo.

Patriam eluxi iam et gravius et diutius, quam ulla mater unicum filium.

Già piansi (eluxi: perf. di elugeo) la patria più dolorosamente e più a lungo (gravius et diutius) che alcuna madre (quam ulla mater) l’unico figlio!

Sed cura, si me amas, ut valeas, ne ego te iacente bona tua comedim; statui enim tibi ne aegroto quidem parcere.

Ma abbi cura (cura: imperat. di curo,as…), se mi ami, di stare bene (ut valeas: “che tu stia bene”), affinché io non divori (ne comedim=ut non comediam) i tuoi beni, mentre te ne stai a letto (te iacente: ablat. assoluto); ho deciso difatti di non risparmiarti (statui ne tibi parcere), nemmeno da malato (ne aegroto quidem).

LA “MODESTIA” LETTERARIA DI PLINIO IL GIOVANE

26 Ott

LA “MODESTIA” LETTERARIA DI PLINIO IL GIOVANE

(Lettere: Libro I, Epistola IX)

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Una lunga e complicata lettera, nella quale un dubbioso Plinio il Giovane chiede consigli a un amico riguardo alla pubblicazione di un discorso fatto tempo prima in Senato (curia) per celebrare, oltre alla propria ricchezza (la famiglia di Plinio era infatti ricchissima!), la propria “generosità”, dal momento che occasione del discorso era stata l’elargizione di parte delle sue ricchezze in favore della plebe.

La lettera, pur bellissima, è un “capolavoro” di sofisticazione e di retorica! Plinio si preoccupa infatti di non apparire vanitoso agli occhi del pubblico, in particolare del popolo, che potrebbe prendere l’elenco delle sue muneficienze come un’ostentazione di generosità, poiché, come egli fa notare al suo interlocutore, “(noi uominisiamo ostili oltre e più che all’onestà in se stessa, alla sua glorificazione e celebrazione, mentre al contrario alteriamo e osteggiamo meno le azioni compiute rettamente che vengono custodite nell’oscurità e nel silenzio.“ (… cum ipsi honestati tum aliquanto magis gloriae ejus praedicationique invidemus, atque ea demum recte facta minus detorquemus et carpimus, quae in obscuritate et silentio reponuntur.)

…E più avanti: “sappiamo quanto, per un animo superiore, i frutti dell’onestà siano riposti nella coscienza più che nella fama” (meminimus quanto majore animo honestatis fructus in conscientia quam in fama reponatur.)

…O ancora: “coloro invero, che adornano con belle parole le proprie buone azioni, non sembrano tanto voler raccontare quel che hanno fatto, ma che lo abbiano fatto proprio per raccontarlo!” (Ii vero, qui benefacta sua verbis adornant, non ideo praedicare quia fecerint, sed ut praedicarent fecisse creduntur.)

Tuttavia, nonostante il tono e le ripetute affermazioni di modestia presenti nella lettera (molto probabilmente pensata sin dall’inizio per la pubblicazione), le complesse argomentazioni e la loro tortuosa esposizione denunciano la vanità e la smania virtuosistica dell’autore.

Sono comunque evidenti le qualità formali dell’opera, che dimostrano la maestria retorica e l’estrema raffinatezza di Plinio come scrittore.

Colpisce anche, a mio avviso, la somiglianza tra il concetto di modestia (pudore, semplicità) attorno a cui ruota questa lettera e lo spirito di carità cristiana, ben esemplificato dalla massima evangelica che recita: “Non sappia la mano sinistra ciò che fa la tua mano destra” (*).

Pur in contesti completamente differenti, mondano l’uno e teologico l’altro, sia il Vangelo di Marco, sia questo testo di Plinio affermano il principio sacrosanto secondo cui un atto di generosità è veramente tale solo se non interessato a qualsiasi ritorno personale.

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(*) Dal Vangelo secondo Matteo 6,1-6.16-18

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini, In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”.

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TESTO LATINO:

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C. Plinius Pompejo Saturnino suo s.

1 Peropportune mihi redditae sunt litterae tuae quibus flagitabas, ut tibi aliquid ex scriptis meis mitterem, cum ego id ipsum destinassem. Addidisti ergo calcaria sponte currenti, pariterque et tibi veniam recusandi laboris et mihi exigendi verecundiam sustulisti. 2 Nam nec me timide uti decet eo quod oblatum est, nec te gravari quod depoposcisti. Non est tamen quod ab homine desidioso aliquid novi operis exspectes. Petiturus sum enim ut rursus vaces sermoni quem apud municipes meos habui bibliothecam dedicaturus. 3 Memini quidem te jam quaedam adnotasse, sed generaliter; ideo nunc rogo ut non tantum universitati ejus attendas, verum etiam particulas qua soles lima persequaris. Erit enim et post emendationem liberum nobis vel publicare vel continere. 4 Quin immo fortasse hanc ipsam cunctationem nostram in alterutram sententiam emendationis ratio deducet, quae aut indignum editione dum saepius retractat inveniet, aut dignum dum id ipsum experitur efficiet. 5 Quamquam hujus cunctationis meae causae non tam in scriptis quam in ipso materiae genere consistunt: est enim paulo quasi gloriosius et elatius. Onerabit hoc modestiam nostram, etiamsi stilus ipse pressus demissusque fuerit, propterea quod cogimur cum de munificentia parentum nostrorum tum de nostra disputare. 6 Anceps hic et lubricus locus est, etiam cum illi necessitas lenocinatur. Etenim si alienae quoque laudes parum aequis auribus accipi solent, quam difficile est obtinere, ne molesta videatur oratio de se aut de suis disserentis! Nam cum ipsi honestati tum aliquanto magis gloriae ejus praedicationique invidemus, atque ea demum recte facta minus detorquemus et carpimus, quae in obscuritate et silentio reponuntur. 7 Qua ex causa saepe ipse mecum, nobisne tantum, quidquid est istud, composuisse an et aliis debeamus. Ut nobis, admonet illud, quod pleraque quae sunt agendae rei necessaria, eadem peracta nec utilitatem parem nec gratiam retinent.

8 Ac, ne longius exempla repetamus, quid utilius fuit quam munificentiae rationem etiam stilo prosequi? Per hoc enim assequebamur, primum ut honestis cogitationibus immoraremur, deinde ut pulchritudinem illarum longiore tractatu pervideremus, postremo ut subitae largitionis comitem paenitentiam caveremus. Nascebatur ex his exercitatio quaedam contemnendae pecuniae. 9 Nam cum omnes homines ad custodiam ejus natura restrinxerit, nos contra multum ac diu pensitatus amor liberalitatis communibus avaritiae vinculis eximebat, tantoque laudabilior munificentia nostra fore videbatur, quod ad illam non impetu quodam, sed consilio trahebamur. 10 Accedebat his causis, quod non ludos aut gladiatores sed annuos sumptus in alimenta ingenuorum pollicebamur. Oculorum porro et aurium voluptates adeo non egent commendatione, ut non tam incitari debeant oratione quam reprimi; 11 ut vero aliquis libenter educationis taedium laboremque suscipiat, non praemiis modo verum etiam exquisitis adhortationibus impetrandum est. 12 Nam si medici salubres sed voluptate carentes cibos blandioribus alloquiis prosequuntur, quanto magis decuit publice consulentem utilissimum munus, sed non perinde populare, comitate orationis inducere? praesertim cum enitendum haberemus, ut quod parentibus dabatur et orbis probaretur, honoremque paucorum ceteri patienter et exspectarent et mererentur. 13 Sed ut tunc communibus magis commodis quam privatae jactantiae studebamus, cum intentionem effectumque muneris nostri vellemus intellegi, ita nunc in ratione edendi veremur, ne forte non aliorum utilitatibus sed propriae laudi servisse videamur.

14 Praeterea meminimus quanto majore animo honestatis fructus in conscientia quam in fama reponatur. Sequi enim gloria, non appeti debet, nec, si casu aliquo non sequatur, idcirco quod gloriam meruit minus pulchrum est. 15 Ii vero, qui benefacta sua verbis adornant, non ideo praedicare quia fecerint, sed ut praedicarent fecisse creduntur. Sic quod magnificum referente alio fuisset, ipso qui gesserat recensente vanescit; homines enim cum rem destruere non possunt, jactationem ejus incessunt. Ita si silenda feceris, factum ipsum, si laudanda non sileas, ipse culparis. 16 Me vero peculiaris quaedam impedit ratio. Etenim hunc ipsum sermonem non apud populum, sed apud decuriones habui, nec in propatulo sed in curia. 17 Vereor ergo ut sit satis congruens, cum in dicendo assentationem vulgi acclamationemque defugerim, nunc eadem illa editione sectari, cumque plebem ipsam, cui consulebatur, limine curiae parietibusque discreverim, ne quam in speciem ambitionis inciderem, nunc eos etiam, ad quos ex munere nostro nihil pertinet praeter exemplum, velut obvia ostentatione conquirere. 18 Habes cunctationis meae causas; obsequar tamen consilio tuo, cujus mihi auctoritas pro ratione sufficiet.

Vale.

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TRADUZIONE LETTERARIA:

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Caro Pompeo Saturnino,

in buon punto mi è stata recapitata la tua lettera, nella quale mi chiedi di mandarti qualche mio scritto, proprio mentre io avevo l’intenzione di farlo. Hai dato dunque di sperone a chi già correva per suo conto, e a un tempo hai tolto a te il diritto di sottrarti a una fatica, a me l’imbarazzo di doverla imporre. Perché non è giusto che io usi parsimonia per quanto mi è offerto, e tu provi molestia per quanto hai chiesto tu stesso. Non puoi tuttavia, da un poltrone mio pari, aspettarti un’opera nuova. Ti domando, infatti, che tu ti dedichi ancora a quel mio discorso che ho tenuto ai miei concittadini all’inaugurazione della biblioteca. Ben so che tu mi hai già fatto alcune osservazioni, ma di carattere generale: ora ti prego che non badi tanto all’assieme di quello che ho scritto, ma che vi applichi la lima, come sei solito, anche nei particolari. Io sarò libero, anche dopo le tue correzioni, di pubblicarlo o tenerlo per me. E chissà che questo tuo lavoro di correzione non determini la mia incertezza verso l’uno o l’altro partito, trovando lo scritto, o indegno di essere pubblicato in quanto lo si è dovuto troppo correggere, oppure degno di esserlo proprio perché è stato corretto.

Le ragioni della mia indecisione, però, non consistono tanto nella forma, quanto nel soggetto stesso dello scritto. Infatti, direi sa un po’ di vanità e di gloriola, il che peserà alla mia delicatezza, anche se lo stile apparirà modesto e dimesso; sono stato infatti costretto a parlare della liberalità non solo dei miei avi, ma anche della mia. È un terreno pericoloso e sdrucciolevole, anche se è la necessità vi ti costringe. Giacché, se perfino le lodi rivolte a altri sono di solito ascoltate con orecchie poco benevole, come è difficile arrivare a non far apparire insopportabile un discorso nel quale si parla di sé e dei propri avi! Poiché noi guardiamo di malocchio anche la virtù e più ancora la sua glorificazione ed esaltazione; le buone azioni che noi meno travisiamo e critichiamo, sono quelle avvolte dall’oscurità e dal silenzio. Per tale ragione mi chiedo sovente, checché esso valga, se io quel discorso lo abbia composto solo per me, o anche per gli altri. Per me solo, mi fa pensare il fatto che la maggior parte di quegli atti che sono stati necessari nell’azione, non conservano, una volta adempiuti, le medesime utilità e il medesimo favore.

Ma per non andar più lontano a cercare esempi, che cosa poteva essermi più utile del dichiarare anche per iscritto i motivi della mia generosità? In tal modo mi assicuravo, innanzitutto, di potermi intrattenere in nobili pensieri; poi di scoprirne la bellezza ragionandone più a fondo; infine di guardarmi dal pentimento, solito compagno delle liberalità precipitose. Ne deriva anche una specie di allenamento a disprezzare il danaro. Mentre tutti gli uomini sono spinti dalla natura a conservare la ricchezza, io al contrario, dopo aver a lungo valutato i pregi della munificenza, mi sentivo liberato dai comuni lacci dell’avarizia; e mi sembrava che la mia liberalità sarebbe stata tanto più degna di lode, in quanto non vi ero stato spinto da una specie di istinto, bensì dalla riflessione.

Si aggiungeva a questi motivi, che io offrivo non già dei giochi o degli spettacoli di gladiatori, bensì una dotazione annuale per il mantenimento di giovani nati da genitori liberi. Quando infatti si tratta solo di cose che devono piacere agli occhi e alle orecchie, non v’è d’uopo di gran lodi, anzi, esse non devono essere stimolate dal discorso, ma piuttosto represse: se però si tratta che qualcuno si deve sobbarcare volenterosamente al fastidio e alla fatica dell’educare, non basta la speranza di compensi, ma occorrono anche delle studiate esortazioni. Giacché se i medici accompagnano con discorsi persuasivi l’ingestione di sostanze naturali, ma poco gradevoli, non è maggiormente necessario che colui che viene in aiuto del pubblico con un dono utilissimo, peraltro non da tutti apprezzabile, lo presenti con un adatto discorso? Soprattutto dovevo provare attenzione affinché ciò che veniva regalato a padri che hanno figlioli venisse approvato anche da coloro che ne eran privi, e l’onore fatto a pochi fosse benevolmente accolto e considerato da tutti gli altri. Giacché, se allora io miravo più all’utilità generale che non alla gloria personale, desiderando fossero compresi il movente e gli scopi della mia donazione, ora, che si tratta di pubblicare quel discorso, temo che si possa pensare che io miri non tanto all’altrui utilità, quanto a una personale rinomanza.

So altresì come per un animo nobile la ricompensa stia riposta assai più nella propria coscienza che nell’opinione degli altri. La gloria deve essere conseguita, non ricercata, e se per qualche ragione fortuita non viene conseguita, ciò che non ha meritato la gloria non è per questo meno bello. E coloro che infiorano con le parole le proprie buone azioni, mostrano non già di mettere in evidenza ciò che hanno compiuto, ma di averlo fatto per porlo in evidenza. In tal guisa, ciò che, narrato dagli altri, era degno di ammirazione, se chi parla è colui che l’ha compiuto, non val più nulla. Poiché la gente, che non riesce a sopprimere ciò che è stato fatto, si rifà su chi se ne vanta. E allora, se avrai compiuto qualcosa che era degno di silenzio, ti addebiteranno ciò che hai fatto; se qualcosa degno di lode, ti incolperanno per non aver taciuto.

Un’altra ragione particolare tuttavia mi imbarazza. Io tenni quel discorso non davanti al popolo; bensì ai decurioni e non in luogo pubblico ma nella Curia. Temo perciò non sia giusto che, mentre ho evitato nel pronunciarlo l’assenso e gli applausi della moltitudine, li ricerchi ora con la pubblicazione e mentre avevo allora tenuto lontano oltre la soglia e le pareti della Curia il popolo, al quale venivo in aiuto, per non avere l’aria di ricercare la popolarità, tenti ora di accaparrarmi con una sfrontata messa in mostra coloro ai quali della mia liberalità nulla è toccato, altro che un esempio.

Ti ho esposto i motivi della mia incertezza; seguirò nonodimeno il tuo consiglio, la cui autorità varrà per me più di ogni ragionamento. Addio.

(Traduzione di Luigi Rusca; da: Plinio il Giovane, “Lettere”; BUR, 1961; 2009, RCS)

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TESTO TRADOTTO LETTERALMENTE E SPIEGATO:

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C. Plinius Pompejo Saturnino suo s.

C. PLINIO AL SUO POMPEO SATURNINI, SALVE

1 Peropportune mihi redditae sunt litterae tuae quibus flagitabas, ut tibi aliquid ex scriptis meis mitterem, cum ego id ipsum destinassem. Addidisti ergo calcaria sponte currenti, pariterque et tibi veniam recusandi laboris et mihi exigendi verecundiam sustulisti.

MOLTO OPPORTUNAMENTE MI SONO GIUNTE LE TUE LETTERE IN CUI CHIEDEVI CHE (flagitabas, ut…) TI MANDASSI QUALCOSA DEI MIEI SCRITTI, MENTRE IO LA STESSA COSA AVEVO DECISO (cum ego id ipsum destinassem). AGGIUNGESTI DUNQUE DEGLI INCORAGGIAMENTI (calcaria) DI TUA SPONTANEA VOLONTÀ (sponte) A CHI (GIÀ) CORREVA (currenti), E ALLO STESSO TEMPO TOGLIESTI A TE STESSO (tibi) LA SCUSA DEL LAVORO DA RIUTARE/DI RIFIUTARE IL LAVORO DA FARE (veniam recusandi laboris) E A ME (mihi) LA VERGOGNA DI ESIGERE (CHE TU LO FACESSI…)

2 Nam nec me timide uti decet eo quod oblatum est, nec te gravari quod depoposcisti. Non est tamen quod ab homine desidioso aliquid novi operis exspectes. Petiturus sum enim ut rursus vaces sermoni quem apud municipes meos habui bibliothecam dedicaturus.

INFATTI NÉ È GIUSTO (nec decet) CHE IO TIMIDAMENTE UTILIZZI (me timide uti->=infinito di utor… + ablat.) CIÒ CHE È (MI) È STATO OFFERTO (…eo quod oblatum est), NÉ CHE TU SIA GRAVATO DAL FATTO CHE (LO) SOLLECITASTI (nec te gravari quod depoposcisti). TUTTAVIA NON È IL CASO CHE (Non est quod) DA UN UOMO PIGRO TI ASPETTI UNA QUALCHE NUOVA OPERA (aliquid novi operis). INFATTI (TI) CHIEDERÒ CHE (Petiturus sum ut) DI NUOVO (rursus) TI OCCUPI (vaces) DI UN SERMONE CHE TENNI (habui) PRESSO I MIEI CONCITTADINI PRIMA DI DEDICARE/DONARE (LORO) (dedicaturus) UNA BILIOTECA.

3 Memini quidem te jam quaedam adnotasse, sed generaliter; ideo nunc rogo ut non tantum universitati ejus attendas, verum etiam particulas qua soles lima persequaris. Erit enim et post emendationem liberum nobis vel publicare vel continere.

RICORDO CERTO CHE TU ALCUNE COSE GIÀ AVEVI ANNOTATO, MA IN MODO GENERALE; PERCIÒ ORA (TI) CHIEDO CHE ATTENDA/TI OCCUPI NON TANTO AL/DEL SUO INSIEME (universitati ejus), MA CHE INVERO ANCHE PERSEGUA/TI SOFFERMI CON LA LIMA CHE SUOLI (USARE) (lima qua soles) SUI DETTAGLI. SARÀ INFATTI UNA LIBERA SCELTA (liberum) PER NOI, DOPO LA (TUA) CORREZIONE, O PUBBLICARE O TENERE PER NOI (continere) (IL DISCORSO).

4 Quin immo fortasse hanc ipsam cunctationem nostram in alterutram sententiam emendationis ratio deducet, quae aut indignum editione dum saepius retractat inveniet, aut dignum dum id ipsum experitur efficiet.

POICHÉ FORSE (Quin immo fortasse) IL LAVORO DI EMENDAZIONE/CORREZIONE (CHE FARAI) (emendationis ratio) CANCELLERÀ QUESTA NOSTRA STESSA ESITAZIONE VERSO L’UNA O L’ALTRA SENTENZA/DECISIONE (in alterutram sententiam; alteruter: uno dei due), IL QUALE (=LAVORO DI CORREZIONE=ratio emendationis) O TROVERÀ INDEGNO (LO SCRITTO) DI UN’EDIZIONE POICHÉ TROPPO SPESSO (LO) CORREGGE (dum saepius retractat), O LO RENDERÀ DEGNO (DI ESSA) POICHÉ QUESTA STESSA COSA HA ESPERITO/PER LE SUE STESSE CORREZIONI (dum id ipsum experitur).

5 Quamquam hujus cunctationis meae causae non tam in scriptis quam in ipso materiae genere consistunt: est enim paulo quasi gloriosius et elatius. Onerabit hoc modestiam nostram, etiamsi stilus ipse pressus demissusque fuerit, propterea quod cogimur cum de munificentia parentum nostrorum tum de nostra disputare.

TUTTAVIA LE CAUSE DI QUESTA MIA ESITAZIONE NON CONSISTONO TANTO NEI (MIEI) SCRITTI QUANTO NELLA STESSA NATURA (genus) DELLA MATERIA: ESSO (riferito a “genus”, neutro) INFATTI È IN QUALCHE MODO (quasi) UN POCO (paulo) TROPPO GLORIOSO E ALTO (gloriosius et elatius). ESSO (hoc) APPESANTIRÀ/METTERÀ ALLA PROVA (Onerabit) LA NOSTRA MODESTIA, ANCHE SE LA NOSTRA PENNA SARÀ RIMASTA (fuerit) OPPRESSA (DAL PESO DEL TEMA TRATTATO) E DIMESSA, DAL MOMENTO CHE (propterea quod) SIAMO COSTRETTI (cogimur) A RACCONTARE (disputare) TANTO (cum…) DELLA MUNIFICENZA DEI NOSTRI GENITORI QUANTO (…tum) DELLA NOSTRA.

6 Anceps hic et lubricus locus est, etiam cum illi necessitas lenocinatur. Etenim si alienae quoque laudes parum aequis auribus accipi solent, quam difficile est obtinere, ne molesta videatur oratio de se aut de suis disserentis! Nam cum ipsi honestati tum aliquanto magis gloriae ejus praedicationique invidemus, atque ea demum recte facta minus detorquemus et carpimus, quae in obscuritate et silentio reponuntur.

QUESTO È UN LUOGO/ARGOMENTO DUBBIO (Anceps) E SCIVOLOSO, ANCHE QUANDO (etiam (si)) LA NECESSITÀ CI ALLETTA CON ESSO. E INFATTI SE PURE LE LODI ALTRUI/RIVOLTE AD ALTRI (alienae laudes) SOLGONO ESSERE ACCOLTE CON ORECCHIE POCO EQUE/IN MODO POCO IMPARZIALE, QUANTO È COSA DIFFICILE OTTENERE CHE NON APPAIA SGRADEVOLE (obtinere, ne molesta videatur) L’ORAZIONE DI COLUI CHE DISSERTA (disserentis) SU DI SÉ O SUI PROPRI PARENTI (de suis). INFATTI SIAMO OSTILI (invidemus) TANTO (tum…) ALL’ONESTÀ PER SE STESSA QUANTO (…cum) (E) ALQUANTO DI PIÙ (aliquanto magis) ALLA SUA GLORIA E NOTORIETÀ (gloriae ejus praedicationique), MENTRE APPUNTO (atque demum) STORPIAMO E OSTEGGIAMO DI MENO LE COSE FATTE RETTAMENTE CHE (ea recte facta…, quae) SONO TENUTE (reponuntur) NELL’OSCURITÀ E NEL SILENZIO.

7 Qua ex causa saepe ipse mecum, nobisne tantum, quidquid est istud, composuisse an et aliis debeamus. Ut nobis, admonet illud, quod pleraque quae sunt agendae rei necessaria, eadem peracta nec utilitatem parem nec gratiam retinent.

PER LA QUALE RAGIONE (Qua ex causa) SPESSO (IO) STESSO CON ME STESSO (DISCUTO/MI CHIEDO; il verbo è sottinteso!) SE PER NOI SOLTANTO (nobisne tantum), QUALSIASI COSA (quidquid) ESSO SIA, O ANCHE PER GLI ALTRI (an et aliis) DOBBIAMO (debeamus) AVER(LO: IL DISCORSO) COMPOSTO. POICHÉ A NOI (Ut nobis) QUEL (DETTO) (illud) RICORDA CHE (admonet, quod) LA MAGGIOR PARTE DELLE COSE CHE (pleraque quae) SONO NECESSARIE PER UNA COSA DA FARE/PER COMPIERE UN’IMPRESA (rei agendae), ESSE STESSE UNA VOLTA COMPIUTE (eadem peracta) NÉ MANTENGONO EGUALE UTILITÀ NÉ BELLEZZA (nec utilitatem parem nec gratiam).

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8 Ac, ne longius exempla repetamus, quid utilius fuit quam munificentiae rationem etiam stilo prosequi? Per hoc enim assequebamur, primum ut honestis cogitationibus immoraremur, deinde ut pulchritudinem illarum longiore tractatu pervideremus, postremo ut subitae largitionis comitem paenitentiam caveremus. Nascebatur ex his exercitatio quaedam contemnendae pecuniae.

E, PER NON RIPETERE PIÙ A LUNGO (ALTRI) ESEMPI, COSA (MAI) VI ERA DI PIÙ VANTAGGIOSO (PER ME) CHE (utilius quam) PROSEGUIRE/CONTINUARE IL (MIO) LAVORO DI MUNIFICENZA (munificentiae rationem) ANCHE CON LO STILO? PER QUESTO DUNQUE ABBIAMO CONCLUSO (INFINE) IN PRIMO LUOGO CHE (assequebamur, primum ut…; l’ut + cong. può avere qui una sfumatura di possibilità) CI SIAMO/SAREMMO INTRATTENUTI (immoraremur) CON CONCETTI ONESTI/ONOREVOLI, IN SECONDO LUOGO (deinde) CHE CON UN PIÙ LUNGO TRATTATO/DISCORSO ABBIAMO/AVREMMO VISTO/MOSTRATO MEGLIO (pervideremus) LA LORO (illarum->cogitationibus) BELLEZZA, INFINE (postremo) CHE ABBIAMO/AVREMMO TENUTO LONTANO (caveremus) IL PENTIMENTO (CHE È) COMPAGNO DI UNA ELARGIZIONE IMPROVVISA/FATTA SENZA TROPPO PENSARE. NASCEVA DA QUESTE COSE UNA CERTA ESERCITAZIONE ALLA RICCHEZZA DA DISPREZZARE/A DISPREZZARE LA RICCHEZZA (quaedam exercitatio pecuniae contemnendae).

9 Nam cum omnes homines ad custodiam ejus natura restrinxerit, nos contra multum ac diu pensitatus amor liberalitatis communibus avaritiae vinculis eximebat, tantoque laudabilior munificentia nostra fore videbatur, quod ad illam non impetu quodam, sed consilio trahebamur.

INFATTI SEBBENE LA NATURA ABBIA COSTRETTO (cum… natura restrinxerit->il perfetto cong. ha qui un valore risultativo) TUTTI GLI UOMINI ALLA SUA COSTODIA/A CUSTODIRE I PROPRI INTERESSI, NOI AL CONTRARIO (nos contra multum), ED A LUNGO (diu) ESSENDO STATO OGGETTO DI RIFLESSIONE (pensitatus), L’AMORE ESIMETTE DAI COMUNI VINCOLI DELL’AVARIZIA, E TANTO PIÙ LODABILE LA NOSTRA MUNIFICENZA (MI) SEMBRAVA CHE SAREBBE STATA (fore videbatur), POICHÉ AD ESSA ERAVAMO STATI TRATTI NON DA UN QUALCHE IMPETO, MA DA UNA SCELTA PONDERATA (consilio).

10 Accedebat his causis, quod non ludos aut gladiatores sed annuos sumptus in alimenta ingenuorum pollicebamur. Oculorum porro et aurium voluptates adeo non egent commendatione, ut non tam incitari debeant oratione quam reprimi;

SI AGGIUNGEVA A QUESTE RAGIONI IL FATTO CHE (Accedebat his causis, quod) FORNIVAMO NON LUDI O GLADIATORI MA DELLE SPESE ANNUE PER GLI ALIMENTI (annuos sumptus in alimenta) DEI LIBERI CITTADINI (ingenuorum). INOLTRE (porro) LE VOLUTTÀ DEGLI OCCHI E DELLE ORECCHIE A TAL PUNTO (adeo…) NON HANNO BISOGNO DI RACCOMANDAZIONE, CHE (…ut) NON DEVONO TANTO ESSERE INCORAGGIATE CON UN’ORAZIONE QUANTO ESSERE REPRESSE;

11 ut vero aliquis libenter educationis taedium laboremque suscipiat, non praemiis modo verum etiam exquisitis adhortationibus impetrandum est.

CHE INVERO QUALCUNO SOSTENGA VOLENTIERI (libenter) IL TEDIO E LA FATICA DELL’EDUCAZIONE/EDUCARE, È (COSA) DA RICERCARE (impetrandum est) NON INVERO SOLO CON PREMI (MA) ANCHE CON RAFFINATE ESORTAZIONI.

12 Nam si medici salubres sed voluptate carentes cibos blandioribus alloquiis prosequuntur, quanto magis decuit publice consulentem utilissimum munus, sed non perinde populare, comitate orationis inducere? praesertim cum enitendum haberemus, ut quod parentibus dabatur et orbis probaretur, honoremque paucorum ceteri patienter et exspectarent et mererentur.

INFATTI SE I MEDICI PROMUOVONO DEI CIBI SALUTARI MA CARENTI DI VOLUTTÀ CON DISCORSI INVITANTI (blandioribus alloquiis), QUANTO PIÙ ERA OPPORTUNO (decuit) CHE UN PUBBLICO CONSULENTE/ORATORE PUBBLICO INTRODUCESSE PER MEZZO DI UN’ORAZIONE (comitate orationis) UNA DONAZIONE UTILISSIMA, MA NON PER QUESTO (non perinde) POPOLARE? SOPRATTUTTO () DAL MOMENTO CHE AVEVAMO DA MOSTRARE/DOVEVAMO DIMOSTRARE (cum enitendum haberemus; (aliquid) enitendum: “qualcosa da mostrare”, gerundio di eniteo: mostro, segnalo): CHE (ut + cong.) CIÒ CHE AI GENITORI ERA DATO, ANCHE AI PRIVI (DI FIGLI)/A CHI NON AVEVA FIGLI (orbis) ERA APPROVATO/CONCESSO (ut… probaretur), E CHE L’ONORE DI POCHI/CONCESSO A POCHI GLI ALTRI CON PAZIENZA E AVREBBERO DOVUTO ATTENDERE E AVREBBERO DOVUTO MERITARE (ut… et exspectarent et mererentur).

13 Sed ut tunc communibus magis commodis quam privatae jactantiae studebamus, cum intentionem effectumque muneris nostri vellemus intellegi, ita nunc in ratione edendi veremur, ne forte non aliorum utilitatibus sed propriae laudi servisse videamur.

MA COME ALLORA (ut tunc) CI ADOPERAVAMO (studebamus) PIÙ PER GLI INTERESSI COMUNI CHE PER UNA VANTERIA PRIVATA, MENTRE CERCAVAMO/CERCANDO DI FARE IN MODO CHE FOSSERO COMPRESE (cum… vellemus intellegi) L’INTENZIONE E L’EFFETTO DEL NOSTRO DONO, COSÌ ADESSO (ita nunc) TEMIAMO, A CAUSA DEL (NOSTRO) ESPORCI PUBBLICAMENTE (in ratione edendi), FORSE DI APPARIRE AVERE SERVITO/COME SE AVESSIMO SERVITO (ne… servisse videamur) NON LE UTILITÀ DEGLI ALTRI MA LA (NOSTRA) PROPRIA RINOMANZA (propriae laudi).

14 Praeterea meminimus quanto majore animo honestatis fructus in conscientia quam in fama reponatur. Sequi enim gloria, non appeti debet, nec, si casu aliquo non sequatur, idcirco quod gloriam meruit minus pulchrum est.

INOLTRE RICORDIAMO/SAPPIAMO QUANTO, IN UN’ANIMA NOBILE, IL FRUTTO DELL’ONESTÀ SIA CUSTODITO NELLA COSCIENZA PIÙ CHE ((magis) quam) NELLA FAMA. INFATTI LA GLORIA DEVE SEGUIRE/VENIRE DA SÉ (Sequi), NON ESSERE RICERCATA (appeti), NÉ, SE PER UN QUALCHE CASO (ESSA) NON SEGUA, PERCIÒ SOLTANTO (idcirco) CIÒ CHE HA MERITATO/MERITEREBBE LA GLORIA È MENO BELLO.

15 Ii vero, qui benefacta sua verbis adornant, non ideo praedicare quia fecerint, sed ut praedicarent fecisse creduntur. Sic quod magnificum referente alio fuisset, ipso qui gesserat recensente vanescit; homines enim cum rem destruere non possunt, jactationem ejus incessunt. Ita si silenda feceris, factum ipsum, si laudanda non sileas, ipse culparis.

INVERO, COLORO I QUALI ADORNANO CON LE PAROLE LE PROPRIE BUONE AZIONI (benefacta sua), NON SEMBRANO TANTO (non ideo… creduntur) RACCONTARE LE COSE CHE FECERO, MA AVER(LE) FATTE PER RACCONTARLE (ut praedicarent). COSÌ CIÒ CHE SAREBBE STATO MAGNIFICO SE (LO) AVESSE RACCONTATO UN ALTRO (referente alio: ablativo assoluto), SCOMPARE QUALORA (LO) NARRI LO STESSO (recensente ipso) CHE (LO) HA COMPIUTO; GLI UOMINI INFATTI QUANDO NON POSSONO DISTRUGGERE UNA COSA/UN FATTO (rem), AFFERMANO LA SUA VANITÀ/FRIVOLEZZA. COSÌ QUALORA (TU) ABBIA FATTO COSE DA TACERE/VERGOGNOSE (silenda), IL FATTO STESSO VIENE BIASIMATO (culparis), QUALORA NON TACCIA COSE DA LODARE/LODEVOLI, (TU) STESSO SEI BIASIMATO (culparis).

16 Me vero peculiaris quaedam impedit ratio. Etenim hunc ipsum sermonem non apud populum, sed apud decuriones habui, nec in propatulo sed in curia.

(INOLTRE) UN CERTO CALCOLO PARTICOLARE INVERO MI TRATTIENE. E INFATTI QUESTO STESSO DISCORSO NON PRESSO IL POPOLO, MA PRESSO I DECURIONI (LO) TENNI (habui), E NON IN UN LUOGO PUBBLICO (in propatulo) MA NELLA CURIA.

17 Vereor ergo ut sit satis congruens, cum in dicendo assentationem vulgi acclamationemque defugerim, nunc eadem illa editione sectari, cumque plebem ipsam, cui consulebatur, limine curiae parietibusque discreverim, ne quam in speciem ambitionis inciderem, nunc eos etiam, ad quos ex munere nostro nihil pertinet praeter exemplum, velut obvia ostentazione conquirere.

TEMO QUINDI CHE NON SIA (ut sit; i verbi di timore reggono ne + cong. per dire “temo che”; reggono ut + cong.per dire “temo che non”) ABBASTANZA/MOLTO COERENTE IL FATTO CHE ORA LE STESSE COSE SEGUANO UN’EDIZIONE/SIANO PUBBLICATE (editione sectari), QUANDO AVEVO RIFUGGITO NEL DIR(LE) (in dicendo) L’APPREZZAMENTO E L’ACCLAMAZIONE DEL VOLGO, E QUANDO LA PLEBE STESSA, ALLA QUALE ERA STATO PROVVEDUTO (CON LE MIE LARGIZIONI)/CUI AVEVO PROVVEDUTO (cui consulebatur), HO TENUTO (discreverim: perf.) AL LIMITARE E ALLE PARETI ESTERNE DELLA CURIA, AFFINCHÉ NON CADESSI (inciderem) IN UNA QUALCHE SPECIE DI AMBIZIONE/VANITÀ (quam in speciem0 in (ali)quam speciem), CHE ORA ANCHE COSTORO, AI QUALI NULLA PERTIENE/CON CUI NULLA HA A CHE VEDERE DELLA NOSTRA FATICA (ex munere nostro) OLTRE ALL’ESEMPIO, RICERCHI (COME SPETTATORI) (conquirere) COME CON UNA OVVIA OSTENTAZIONE.

18 Habes cunctationis meae causas; obsequar tamen consilio tuo, cujus mihi auctoritas pro ratione sufficiet.

Vale.

(ORA) HAI CHIARE (Habes) LE RAGIONI DELLA MIA INDECISIONE; SEGUIRÒ TUTTAVIA IL TUO CONSIGLIO, L’AUTORITÀ DEL QUALE VARRÀ PER ME (mihi sufficiet) AL DI LÀ DELLA/PIÙ DELLA (MIA) RAGIONE (pro ratione).

L’ONTOLOGIA SECONDO ARISTOTELE

14 Ott

L’ontologia secondo Aristotele:

il superamento della concezione parmenidea e platonica dell’Essere

 

L’idea di Essere da Parmenide a Platone

 

Parmenide sostenne che l’Essere, non potendo per definizione in alcun modo non essere, dovesse essere nettamente distinto dal Non essere, ovvero che non potesse contenere al proprio interno alcuna differenza o parte (in quanto tali reciproche differenze avrebbero implicato, per l’appunto, l’esistenza di un non essere al suo interno).

L’essere di Parmenide è quindi una realtà assolutamente omogenea o unitaria, priva in se stessa di qualsiasi tipo di molteplicità o differenza.

Platone superò la concezione unitaria dell’Essere propria di Parmenide, a favore di una concezione pluralistica, ma allo stesso tempo univoca. Secondo lui l’essere non è affatto privo di parti, è anzi un’articolazione di idee differenti tra loro, le quali tuttavia si generano dialetticamente da un’Idea fondamentale (il Bene o l’Uno) di cui contengono in qualche modo l’essenza, e, quindi, la stessa proprietà fondamentale di essere.

Vi è quindi un principio unico, l’Idea “madre” di tutte le altre idee, il cui essere darebbe sostanza ed esistenza a queste ultime. In che modo esisterebbe allora il non essere all’interno del mondo delle idee, ovvero all’interno dell’Essere? In modo relativo, non assoluto: ogni idea infatti, pur non essendo le altre e differendone, possiederebbe al tempo stesso la stessa natura della prima idea, partecipando così del suo essere, ovvero dell’Essere stesso.

In tal modo, relativizzando il non essere (intendendolo cioè come un non essere non assoluto, bensì relativo a una determinata idea rispetto alle altre idee particolari), e mantenendo assoluto l’Essere fondamentale, che dalla prima idea si trasmette alle altre, Platone affermava se non l’assoluta unità, almeno l’assoluta univocità dell’Essere: caratteristica considerata non contradditoria rispetto alla sua natura plurale.

L’idea di Essere formulata da Platone costituiva già un grosso progresso rispetto alla visione parmenidea, il cui difetto di fondo era chiaramente quello di porsi in netto contrasto con l’evidenza dei dati sensibili, testimoni inoppugnabili della pluralità dell’esistente (pluralità da Parmenide definita come ”illusione”, realtà intermedia tra Essere vero e proprio e mero Non essere).

Le due posizioni essenziali erano quindi: unità ed omogeneità assoluta dell’Essere (in contrasto col mondo sensibile) da una parte; e pluralità e univocità di esso, identificato peraltro con un modo oltre-sensibile, quello delle Idee iperuraniche, modello assoluto del mondo sensibile (copia imperfetta di tale modello e, come tale, anche transitoria e caduca) dall’altra.

Soffermandoci specificamente sulla posizione platonica, possiamo dire che questa fosse caratterizzata da 1) univocità, e 2) trascendenza del concetto di Essere. L’insieme di ciò che è, secondo tale visione, sarebbe qualcosa di molteplice, multiforme, ma anche di assoluto e univoco, in quanto caratterizzato da un’essenza originaria e fondante, identica in ogni sua parte (in ogni Idea), nonché al tempo stesso collocato al di sopra del mondo sensibile, in una dimensione per esso inaccessibile: in una parola trascendente.

 

Aristotele: ontologia e gnoseologia

 

Con Aristotele, il dibattito sull’Essere subisce una svolta in senso radicalmente pluralistico e immanentistico.

* Per lo stagirita infatti, l’Essere esiste (o “si dice”) in tanti modi differenti tra loro e, novità rispetto a Platone, non riconducibili a un principio comune. Esso insomma, si dà in modi diversi senza che vi sia un’essenza comune a tali modi, un principio unificatore di essi. Esso è perciò plurale senza essere univoco, ovvero unificato in qualche modo da un’origine comune a tutte le sue differenze.

Esso quindi, contiene al suo interno un non essere meno attenuato e più radicale rispetto a quello platonico, poiché ogni parte dell’Essere non solo è diversa dalle altre, ma lo è in modo assoluto, in quanto priva di un’essenza che la accomuni in modo intrinseco alle sue omologhe (il che non significa – come vedremo – che, stante tale autonomia, non vi siano somiglianze strutturali tra i vari enti o sostanze in cui l’Essere si articola).

Vedremo più avanti quali siano le tipologie di tali differenze, e quali le somiglianza strutturali tra esse.

** Ma vi è anche una seconda differenza rispetto a Platone: l’Essere per Aristotele non risiede in un mondo oltre-sensibile, trascendente, quale quello delle Idee iperuraniche, ma si colloca (in tutte le sue forme o varianti, anche se con l’unica ma grandiosa eccezione di Dio o Motore immobile!) in una dimensione immanente, cosmica, tanto da potersi dire senz’altro che il pensiero aristotelico è molto più un pensiero cosmologico, che metafisico (quantomeno se tale termine venga inteso in un’accezione platonica, ovvero come l’affermazione dell’esistenza di una realtà “altra” rispetto a quella esperibile attraverso i sensi).

Come vedremo meglio avanti, inoltre, vi è una correlazione non casuale, bensì al contrario molto stretta, tra l’aspetto plurale o “polivoco” dell’Essere, e il suo radicarsi non in un mondo assoluto e metafisico quale quello delle Idee platoniche, ma in quello, variegato anche se non contraddittorio, delle forme sensibili.

 

La natura polivoca dell’Essere

 

Il termine polivoco sta qui a indicare, come si sarà compreso, una natura plurale non riconducibile ad una unità originaria, ovvero una pluralità di principi che, in quanto tali, esistono ognuno per se stesso e non hanno bisogno, per giustificarsi, di qualcosa di precedente a sé.

Vediamo ora, in breve, quali sono le ragioni teoretiche per cui Aristotele rifiutò l’ontologia “univocistica” platonica e sviluppò una concezione propria dell’Essere.

Esse ruotano essenzialmente attorno al principio di non contraddizione, principio secondo il quale una cosa (sostanza) non può essere portatrice di caratteri che si escludano tra loro, e che nel suo pensiero ha una portata non solo logica o conoscitiva (quindi soggettiva), ma anche ontologica (oggettiva).

Aristotele si chiede come sia possibile che, stante (come pensava Platone) il fatto che il Bene o l’Unità sia l’idea madre delle altre idee, queste ultime ne conservino inalterata la natura o essenza al proprio interno, essendo così al tempo stesso identiche e diverse rispetto a essa. Se difatti esse fossero radicalmente diverse da essa, non potrebbero più essere, poiché da tale idea ricevono il loro essere, ma se si identificassero del tutto con essa non sarebbero altre rispetto a lei, cosa che chiaramente non può essere. Le idee derivate insomma, devono allo stesso tempo essere e non essere uguali all’idea che le ha generate, cosa impossibile perché richiederebbe la coesistenza di due attributi contrari nello stesso soggetto (le idee).

A questo punto, osserva Aristotele, le possibilità sono due: o l’Essere è unitario e omogeneo, come sosteneva Parmenide, ma come non attestano i sensi (i quali, per Aristotele, sono la misura del vero tanto quanto lo è la logica!), oppure esso per forze di cose deve essere diviso tra sostanze autonome tra loro, ognuna bastante a se stessa (origine e fine di sé). Deve, in una parola, avere una natura polivoca.

Se ne evince che, coerentemente con quanto attestano la logica e i sensi, la teoria corretta dell’Essere considererà quest’ultimo come qualcosa che si dà in tanti modi, del tutto indipendenti tra loro (anche se dotati di caratteri strutturalmente simili, come attesta la metafisica o filosofia prima, una disciplina che indaga appunto la natura di tali caratteri comuni…) e non in un modo unico, declinato al tempo stesso in forme secondarie e diverse tra loro (le idee particolari).

 

I molteplici sensi dell’Essere

 

Soffermiamoci ora su quelli che, secondo Aristotele, sono i molteplici modi di esistenza dell’Essere, peraltro con la notazione preliminare che la loro scoperta si lega profondamente all’atteggiamento empiristico (ovvero non esclusivamente logico e aprioristico) che egli assumeva nei confronti della realtà.

Aristotele fu infatti, dal punto di vista gnoseologico, un pensatore antiplatonico, poiché non si fidò mai ciecamente della ragione in astratto, come fecero appunto Platone e gli Eleati, ma indagò sempre le cose e il Tutto tanto attraverso l’uso dei sensi (empirismo) quanto attraverso l’uso della logica (razionalismo). (Egli fu platonico, invece, nella misura in cui considerò l’universale come qualcosa di esistente oggettivamente, nonché come la sola componente del reale che possa essere effettivamente oggetto di conoscenza, in quanto non casuale ma necessaria.)

I sensi o modi dell’Essere sono:

1) essere come insieme di sostanze differenti tra loro;

2) essere come categorie;

3) essere come sostanza o “per sé”, e essere come accidente o contingente;

4) essere come atto e essere come potenza;

5) essere come causa formale, causa finale, causa efficiente, causa materiale;

6) essere come vero.

Il punto 1 verrà trattato in un paragrafetto su “la pluralità dei principi del Tutto”.

I punti 2, 3, 4 e 5 saranno trattati come parti di un paragrafetto su “la sostanza e i suoi attributi”.

Il punto 6 infine, sarà oggetto di un più lungo paragrafo su “la teoria della conoscenza di Aristotele”.

 

(La pluralità dei principi del Tutto)

Aristotele afferma più volte che la sostanza è qualcosa che basta a se stessa, qualcosa che non si può dimostrare, ovvero che non si può far derivare da qualcosa d’altro: è il componente costitutivo ultimo del mondo stesso.

Il mondo è composto da una molteplicità di sostanze autonome tra loro, e che nella loro pluralità rientrano all’interno  di varie tipologie (nello specifico: (a) le sostanze fisiche, cioè quelle capaci di  movimento o di trasformazione, e tra queste (a/1) le sostanze celesti e (a/2) quelle sublunari, e tra queste ultime (a/2/1) quelle animate e (a/2/2) quelle priva di anima… e sopra a tutte queste sostanze, (b) la sostanza prima o Dio, atto puro privo di materia e quindi eterno e immobile). Ciò significa che vi sono vari principi originari dell’Essere, e che questo quindi non è monolitico ma frazionato tra varie componenti originarie.

[Questo discorso peraltro, implica che i generi, cioè gli “universali degli universali” di cui parlava Platone (quali ad esempio l’Animale come l’insieme dei vari tipi di animale: cane, gatto, scimmia, uomo, ecc.) a cui peraltro attribuiva un grado di realtà maggiore rispetto agli universali semplici, non possano in realtà esistere – e ciò per la stessa ragione per cui non può esistere un’idea originaria che trasmetterebbe il proprio essere a tutte le altre, dal momento che tali generi genererebbero dialetticamente le idee in essi contenute, come l’Idea prima genererebbe l’insieme di tutte le altre idee. Solo le specie ultime quindi, quali appunto l’uomo, il cavallo, il cane, ecc., sarebbero per Aristotele effettivamente reali, mentre i generi che le contengono (ad esempio, l’Animale) sarebbero mere astrazioni umane, veritiere da un punto di vista tassonomico ma non esistenti al di fuori della mente razionale che le concepisce.]

Ma, fin qui, il discorso aristotelico non è poi così originale: molti dei filosofi presocratici, i cosiddetti “fisici”, avevano postulato l’esistenza di più principi alla base dell’Universo (un esempio per tutti: gli atomi di Democrito, entità originarie e indistruttibili che sarebbero all’origine di tutti i vari composti che possiamo concretamente esperire…)

Se la polivocità dell’Essere per Aristotele si limitasse a questo, il suo discorso ontologico avrebbe il merito di discostarsi consapevolmente e motivatamente da quello di Platone, e di correggerlo, ma non quello di un’eccessiva originalità rispetto alla filosofia precedente.

 

(La sostanza e i suoi attributi)

La polivocità di cui parla Aristotele si estende anche ai concetti di attributo e di complementarietà.

(A) Iniziamo dal concetto di attributo o predicato. Per Aristotele infatti, l’Essere, ovvero la sostanza, si articola ed è plurale anche al proprio interno. Essa è come la spina dorsale di un organismo più ampio cui ineriscono anche altre caratteristiche, le quali lo caratterizzano appunto solo secondariamente rispetto alla sostanza stessa, e che esistono solo perché essa, esistendo in senso primario e fondamentale, dà loro esistenza o realtà. Se dunque la sostanza è lo scheletro di tale organismo, gli altri attributi sono ciò che esso regge: i muscoli, la pelle, ecc., in poche parole le altri parti di esso.

In questo senso, usando i concetti della sintassi della frase, si può dire (e Aristotele lo dice più volte) che la sostanza è il soggetto, e che le altre categorie sono invece i possibili predicati inerenti al soggetto.

1) Si muove in questo ambito di senso, il discorso di Aristotele sulle categorie. Egli afferma difatti che vi sono dieci categorie fondamentali dell’Essere, tutte coesistenti in ogni singolo essere dotato di caratteri fisici, ovvero collocato nel tempo e nello spazio e caratterizzato dal movimento.

Esse sono: sostanza (appunto la spina dorsale di ogni “pezzo” dell’Essere, ciò a cui ineriscono e da cui dipendono nel loro esistere tutte le altre categorie, che sono:), qualità, quantità, relazione, azione, passione, dove, quando, avere, giacere.

Per illustrare brevemente il significato delle categorie, possiamo dire ad esempio che un uomo, ovvero una singola sostanza uomo (sinolo), deve per forza di cose possedere alcune qualità, alcune quantità, porsi in relazione con altri enti o sostanze, essere collocato in un determinato luogo, in un determinato tempo, subire delle azioni e metterne in atto delle altre, ecc.

Bisogna notare inoltre – una cosa questa molto importante, che ci rinvia immediatamente al punto successivo – il fatto che alcuni di questi attributi, ad esempio l’essere bipede e razionale, saranno intrinseci alla sostanza uomo, mentre altri al contrario, ad esempio l’essere particolarmente alto o basso, o calvo o biondo, ecc., saranno essenzialmente estrinseci e casuali rispetto ad essa. Ciò vale pressoché per tutti gli attributi che si possono far rientrare nelle categorie inerenti la sostanza, la quale per logica conseguenza si troverà ad essere in parte una realtà assoluta (come già era l’idea platonica) e in parte invece una realtà contingente o accidentale, senza peraltro che tale polarità implichi (come accadeva invece in Platone) una inconciliabilità di fatto, il che significa: senza che l’universale debba essere collocato oltre o al di là del contingente e del particolare!

2) A questa stregua, un’altra distinzione essenziale è quella tra essere per sé (cioè essere necessario, o causa formale, o essenza razionale) e essere contingente o accidentale: due aspetti opposti tra loro che coesistono nella singola sostanza o sinolo e che costituiscono due aspetti complementari di essa, laddove tuttavia il primo (l’essere necessario) funge da sostegno per il secondo, ragion per cui non si dovrebbe parlare di una pura complementarietà ma più esattamente di una dipendenza ontologica del secondo rispetto al primo.

Ci si potrebbe chiedere infine, se la coesistenza della sostanza con i suoi predicati non sia una palese violazione di quel principio di non contraddizione che Aristotele stesso ha posto a base del Pensiero e, prima che di esso, dell’Essere stesso. La risposta è no! Poiché, come si è visto, tali attributi o predicati sono sottomessi alla sostanza, e non entrano perciò in contraddizione con essa ma la specificano, la descrivono. Vi sarebbe invece contraddizione, laddove si attribuissero alla stessa sostanza caratteri inconciliabili tra loro, qualora ad esempio sostenessimo che lo stesso uomo è calvo e non calvo.

Il che peraltro, ci porta ad osservare (come faremo ancora più avanti) che la polivocità dell’Essere sostenuta da Aristotele, la sua natura plurale e “imprevedibile”, troverà nella non contraddittorietà una barriera naturale e invalicabile: l’Essere per lo stagirita è sì plurale, ma una tale pluralità si ferma laddove essa si trasformerebbe in contraddizione, in un’assurdità logica!

(B) Passiamo ora alla complementarietà, l’altro aspetto che qui ci interessa.

Ogni singolo essere difatti, non è plurale solo nel senso appena descritto, quello cioè della coesistenza di caratteri diversi dipendenti da un carattere principale, ma anche nel senso di esistere in modi essenzialmente complementari tra loro, ognuno dei quali possiede un medesimo valore e non si pone come subordinato o subordinante rispetto agli altri.

1) Ogni sostanza difatti, può essere vista come atto o come potenza, a seconda che sia posta in relazione con ciò rispetto a cui costituisce una realizzazione (=rispetto a cui è atto) o con ciò che attraverso di essa potrebbe essere realizzato (=rispetto a cui è potenza). Lo stesso uomo, ad esempio, sarà atto rispetto ai suoi genitori e potenza rispetto ai suoi figli.

Si deve anche osservare che atto e potenza non sono concetti puramente mentali, ovvero dipendenti da punti di osservazione diversi e opposti su un medesimo fenomeno, ma concetti che rimandano alla struttura stessa dell’Essere, alla sua originaria polivocità, per la quale appunto, tra le altre determinazioni, vi è quella per cui tutto ciò che esiste, esiste contemporaneamente sia in quanto atto, sia in quanto materia.

2) Infine, vi sono le famosissime quattro cause: formale, materiale, efficiente e finale. Anch’esse, anche questi quattro principi basilari del mondo sensibile, coesistono in ogni sostanza, ovvero in ogni parte dell’essere, in quanto per forza di cose essa dovrà esser dotata di: una forma intrinseca, uno scopo intrinseco, una materia o sostrato dalla cui trasformazione è sorta, ed infine essere potenzialmente motore o causa efficiente della trasformazione di altre sostanze in nuove sostanze (ad esempio: della creta in vaso).

Anche qui, ci si potrebbe chiedere se tale complementarietà di principi diversi non costituisca una violazione del principio di non contraddizione. La risposta è, di nuovo, no. E ciò poiché tali principi non si contraddicono ma, in quanto sono complementari, si completano a vicenda. Dove vi è atto, vi è (stata) potenza, e inoltre l’atto è sempre atto di una potenza e la potenza è sempre potenza di un atto. Dove vi è forma essa è sempre la realizzazione di un fine, che in essa si realizza; dove vi è un sostrato, deve esservi per forza di cose qualcosa (una forma) rispetto a cui esso è sostrato; dove vi è una causa motrice deve esservi qualcosa che essa possa muovere e trasformare (sostrato)…

In quanto complementari, dunque, questi principi non si negano ma si supportano reciprocamente.

 

La teoria aristotelica della conoscenza

 

Vi è infine l’essere come vero, cioè come ricostruzione nell’anima, sia sensitiva sia – in particolare – razionale, della realtà oggettiva esterna a essa (…”in particolare razionale”, perché solo attraverso la ragione è possibile conoscere la realtà, dal momento che soltanto ciò che in essa, appunto, è razionale è conoscibile, in quanto necessario e non accidentale).

L’essere come vero è complementare e parallelo al resto dell’Essere, ovvero a tutte le declinazioni di esso descritte fin qui, proprie del mondo oggettivo.

Per questo, la teoria del conoscere è non solo una teoria sulla mente, ma anche una teoria sul mondo (ontologia), dal momento che Essere e Pensiero veritiero coincidono.

L’assioma alla base del pensiero razionale è, come si è già detto, il principio di non contraddizione (e quello, a esso molto simile, del terzo escluso). Essi sono dunque dei principi basilari anche per il mondo oggettivo e per la scienza ontologica.

La realtà è inoltre polivoca, sfaccettata e in qualche modo imprevedibile, quindi non conoscibile a priori (come era invece per Platone e per Parmenide); per questo la base delle conoscenze sul mondo è sempre l’osservazione, attraverso cui il soggetto in primo luogo prende atto, empiricamente, dei vari aspetti del reale (siano essi contingenti, e come tali conosciuti coi sensi; o formali e razionali, ovvero conosciuti induttivamente, per astrazione dai casi particolari) e in seguito unisce tali aspetti, sulla base dell’osservazione della loro contiguità di fatto, in proposizioni formate da un soggetto e da un predicato (le quali possono riguardare e porre in relazione tra loro o fatti contingenti e concetti [ex: Socrate è un uomo], o solo concetti [ex: L’uomo è mortale]).

Infine, a partire da due proposizioni è possibile l’inferenza logica, ovvero ricavare una terza proposizione, che sarà a sua volta vera se e solo se: 1) i fatti descritti nelle due proposizioni iniziali sono veri e 2) l’inferenza che ne deriva, è stata ricavata in modo formalmente corretto.

Vediamo quindi che la conoscenza (l’essere come vero) è frutto:

-> dell’interazione tra l’osservazione empirica (riguardante gli aspetti molteplici e indeducibili del reale), e la capacità astrattiva (induzione)

-> e dell’applicazione di due principi logici: quello per eccellenza, che rifugge dalla contraddizione, ovvero dalla coesistenza di attributi inconciliabili tra loro in un unico soggetto; e quello che afferma l’impossibilità di trovare una terza via tra l’affermazione di un attributo e la sua negazione (ex: un uomo o è calvo, o non lo è).

 

Conclusioni

 

Aristotele recupera alla pienezza dell’Essere, attraverso la sua teoria ontologica, la ricchezza e la multiformità del mondo empirico, superando definitivamente l’appiattimento su un piano astratto e razionale che di esso era stato operato da parte di due precedenti tradizioni di pensiero, quella eleatica e quella platonica.

Al tempo stesso tuttavia, egli non separa il razionale dall’empirico, ma al contrario li integra tra loro. Abbiamo visto difatti, che gli attributi dell’Essere possono essere tanto necessari quanto contingenti, mentre d’altro canto la sostanza, ovvero il nerbo di tutto ciò che esiste concretamente e realmente (in quanto sinolo di forma e materia), possiede indiscutibilmente un’essenza razionale, che la avvicina chiaramente all’Idea platonica, seppur declinata in una prospettiva immanente e non più trascendente. Inoltre, tutto ciò che è, è sottoposto (de iure e de facto) alla legge inderogabile della non contraddizione.

Per dirla con un’immagine, Aristotele avrebbe molto probabilmente rovesciato l’affermazione di un pensatore (neo)platonico come Sant’Agostino, il quale affermava che “la vita mortale, che noi viviamo ora, si può definire piuttosto morte, perché sottoposta a continui mutamenti, priva di stabilità, ecc.”

Egli avrebbe forse controbattuto a una tale affermazione, osservando che una vita priva di mutamenti e di sfaccettature, non sarebbe una vita, ma già la morte stessa!

 

Adriano Torricelli, Cernusco sul Naviglio, 13/10/2018

 

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PLATONE SUL CONOSCERE

25 Set

PLATONE SU ESSERE, NON ESSERE, E CIO’ CHE E’ INTERMEDIO TRA ESSI

(Plat. Rep. 5.477 a – b)

ὄν: πῶς γὰρ ἂν μὴ ὄν γέ τι γνωσθείη;

ἱκανῶς οὖν τοῦτο ἔχομεν, κἂν εἰ πλεοναχῇ σκοποῖμεν, ὅτι τὸ μὲν παντελῶς ὂν παντελῶς γνωστόν, μὴ ὂν δὲ μηδαμῇ πάντῃ ἄγνωστον;

ἱκανώτατα.

εἶεν: εἰ δὲ δή τι οὕτως ἔχει ὡς εἶναί τε καὶ μὴ εἶναι, οὐ μεταξὺ ἂν κέοιτο τοῦ εἰλικρινῶς ὄντος καὶ τοῦ αὖ μηδαμῇ ὄντος;

μεταξύ.

οὐκοῦν ἐπὶ μὲν τῷ ὄντι γνῶσις ἦν, ἀγνωσία δ᾽ ἐξ ἀνάγκης ἐπὶ μὴ ὄντι, ἐπὶ δὲ τῷ μεταξὺ τούτῳ μεταξύ τι καὶ ζητητέον [5.477b] ἀγνοίας τε καὶ ἐπιστήμης, εἴ τι τυγχάνει ὂν τοιοῦτον;

πάνυ μὲν οὖν.

ἆρ᾽ οὖν λέγομέν τι δόξαν εἶναι;

πῶς γὰρ οὔ;

πότερον ἄλλην δύναμιν ἐπιστήμης ἢ τὴν αὐτήν;

ἄλλην.

ἐπ᾽ ἄλλῳ ἄρα τέτακται δόξα καὶ ἐπ᾽ ἄλλῳ ἐπιστήμη, κατὰ τὴν δύναμιν ἑκατέρα τὴν αὑτῆς.

οὕτω.

οὐκοῦν ἐπιστήμη μὲν ἐπὶ τῷ ὄντι πέφυκε, γνῶναι ὡς ἔστι τὸ ὄν; —μᾶλλον δὲ ὧδέ μοιδοκεῖ πρότερον ἀναγκαῖον εἶναι διελέσθαι.

 

Testo e traduzione………..….

 

ὄν: πῶς γὰρ ἂν μὴ ὄν γέ τι γνωσθείη;

Risposta: ὄν: (…) [è] esistente […si collega alla domanda precedente!];

πῶς γὰρ ἂν μὴ ὄν γέ τι γνωσθείη (*); come infatti potrebbe non essere conosciuto (conoscibile) qualcosa che esiste (ὄν  τι)?

* 3^ sing. ottativo aoristo pass. da γιγνώσκω, conosco

 

ἱκανῶς οὖν τοῦτο ἔχομεν, κἂν εἰ πλεοναχῇ σκοποῖμεν, ὅτι τὸ μὲν παντελῶς ὂν παντελῶς γνωστόν, μὴ ὂν δὲ μηδαμῇ πάντῃ ἄγνωστον;

Domanda: ἱκανῶς οὖν τοῦτο ἔχομεν, Dunque in modo certo assumiamo questo,

κἂν εἰ πλεοναχῇ σκοποῖμεν, [ciò sarebbe vero] anche se guardassimo da molti punti di vista,

ὅτι τὸ μὲν παντελῶς ὂν παντελῶς γνωστόν, che ciò che esiste assolutamente (in modo assoluto) [è] assolutamente conoscibile,

μὴ ὂν δὲ μηδαμῇ πάντῃ ἄγνωστον; mentre (δὲ -> correl. con μὲν) ciò che non esiste [assolutamente] da qualsiasi punto di vista (μηδαμῇ πάντῃ) è inconoscibile?

 

ἱκανώτατα.

R: [Sono] cose certissime.

 

εἶεν: εἰ δὲ δή τι οὕτως ἔχει ὡς εἶναί τε καὶ μὴ εἶναι, οὐ μεταξὺ ἂν κέοιτο τοῦ εἰλικρινῶς ὄντος καὶ τοῦ αὖ μηδαμῇ ὄντος;

D: εἶεν: Bene;

εἰ δὲ δή τι οὕτως ἔχει ὡς se vi fosse qualcosa tale da (οὕτως ὡς: così da…)

εἶναί τε καὶ μὴ εἶναι, essere e non essere [al tempo stesso],

οὐ μεταξὺ ἂν κέοιτο non risiederebbe in mezzo tra

τοῦ εἰλικρινῶς ὄντος καὶ τοῦ αὖ μηδαμῇ ὄντος; ciò che esiste in modo puro e ciò che da alcun punto di vista esiste?

 

μεταξύ.

R: In mezzo [starebbe].

 

οὐκοῦν ἐπὶ μὲν τῷ ὄντι γνῶσις ἦν, ἀγνωσία δ᾽ ἐξ ἀνάγκης ἐπὶ μὴ ὄντι, ἐπὶ δὲ τῷ μεταξὺ τούτῳ μεταξύ τι καὶ ζητητέον [5.477b] ἀγνοίας τε καὶ ἐπιστήμης, εἴ τι τυγχάνει ὂν τοιοῦτον;

D: οὐκοῦν ἐπὶ μὲν τῷ ὄντι γνῶσις ἦν, Dunque non vi sarebbe da una parte conoscenza di ciò che esiste,

ἀγνωσία δ᾽ ἐξ ἀνάγκης ἐπὶ μὴ ὄντι, dall’altra per necessità inconoscibilità di ciò che non esiste,

ἐπὶ δὲ τῷ μεταξὺ τούτῳ μεταξύ τι καὶ ζητητέον (*) ἀγνοίας τε καὶ ἐπιστήμης, εἴ τι τυγχάνει ὂν τοιοῦτον; dall’altra ancora su questo che sta a metà [non sarebbe] da ricercare qualcosa a metà tra l’inconoscibilità e la scienza, se accade che una tale cosa esista?

(*)  “da cercare”, aggettivo verbale da ζητέω, cerco.

 

πάνυ μὲν οὖν.

R: Assoltamente dunque.

 

ἆρ᾽ οὖν λέγομέν τι δόξαν εἶναι;

D: Dunque diciamo essere [questa cosa] una qualche opinione?

 

πῶς γὰρ οὔ;

R: Come no difatti?

 

πότερον ἄλλην δύναμιν ἐπιστήμης ἢ τὴν αὐτήν;

D: [Diciamo questa cosa] o (πότερον…) un’altra cosa (potenza, letteralm.) rispetto alla scienza, o (…ἢ) la stessa [scienza]?

 

ἄλλην.

R: un’altra.

 

ἐπ᾽ ἄλλῳ ἄρα τέτακται(*) δόξα καὶ ἐπ᾽ ἄλλῳ ἐπιστήμη, κατὰ τὴν δύναμιν ἑκατέρα τὴν αὑτῆς.

D: Su una cosa l’opinione si dirige e su un’altra la scienza, ognuna secondo la sua capacità?

(*) 3^ sing. indic. perfetto medio-pass. da τάσσω, ordino.

 

οὕτω.

R: Così.

 

οὐκοῦν ἐπιστήμη μὲν ἐπὶ τῷ ὄντι πέφυκε(*), γνῶναι ὡς ἔστι τὸ ὄν; —μᾶλλον δὲ ὧδέ μοι δοκεῖ πρότερον ἀναγκαῖον εἶναι διελέσθαι. (**)

D: οὐκοῦν ἐπιστήμη μὲν ἐπὶ τῷ ὄντι πέφυκε(*), γνῶναι ὡς ἔστι τὸ ὄν; Dunque non si è sviluppata la scienza in relazione a ciò che è, per conoscere com’è ciò che è?

– μᾶλλον δὲ ὧδέ μοι δοκεῖ πρότερον ἀναγκαῖον εἶναι διελέσθαι(**). – Ma in più a me pare (così: ὧδε) prima cosa necessaria esser di fare una distinzione. (…)

(*) 3^ sing. indic. perfetto att. da φύω, produco, cresco.

(**) infinito aoristo medio da διαιρέω, divido, distinguo, faccio una distinzione.

SINTESI DEL TESTO SU ARISTOTELE

17 Set

SINTESI DEL TESTO SU ARISTOTELE:

CENTRALITA’ DEL FINALISMO NEL SISTEMA COSMICO TEORETICO ARISTOTELICO

 

 

* Finalismo (causa finale) implica le altre tre cause: causa materiale, causa efficiente, causa formale

I concetti (che viaggiano paralleli rispetto alle 4 cause) di Atto e Potenza contengono anch’essi in nuce l’idea del finalismo: infatti la potenza ha per fine l’atto.

Il processo finalistico si realizza attraverso un processo temporale necessario, e ciò conferisce, nel pensiero di Aristotele, una nuova razionalità e dignità ontologica al divenire (in contrasto con Platone: divenire = disordine, Non Essere)

Esistono due tipi di finalismo in Aristotele:

a) Quello che intendiamo come attuazione di una forma in una materia, ovvero in un sinolo o sostanza materiale ** (che è al tempo stesso contingente e assoluta!!!), ovvero come la trasformazione di una potenza in un atto;

b) Quello riferito all’ordine del Cosmo, che si compone di un insieme di sostanze (o forme incarnate in una materia) ordinate secondo una scala di fini: ognuna tende alla forma superiore, che la supera; la scala termina in Dio, o Motore Immobile, che non si riferisce più ad altro da sé ma solo a se stesso.


 

** Il concetto di sostanza intesa come sinolo, ovvero come unione di forma e materia, di atto e potenza, è l’altro cardine del pensiero di Aristotele, e mostra bene anch’esso la differenza rispetto al pensiero platonico. Per Platone l’Essere o il Vero è un assoluto refrattario a tutto ciò che è materiale, e come tale è extra-cosmico; per Aristotele invece, la Sostanza esiste come sostegno della (e complementarmente come sostenuta dalla) materialità o contingenza, e per tale ragione si colloca nel Cosmo, non sopra esso.

Già il concetto di finalismo, in quanto affermazione di un ordine e di una razionalità immanenti al mondo sensibile, era una trasformazione in senso immanentistico del pensiero platonico. La stessa considerazione la facciamo necessariamente a proposito della sostanza-sinolo, in quanto unione di due poli che per Platone erano invece inconciliabili.

 


 

In conclusione:

1 – Il Cosmo aristotelico è dunque la somma di un dato numero di sostanze fisiche, al tempo stesso contingenti (perché materiali) e eterne (perché formali).

2 – Una tale visione immanentistica culmina poi nel finalismo, ovvero nell’organizzazione gerarchica e finalistica di tali forme.

 

Scaica il pdf: SINTESI DEL TESTO SU ARISTOTELE

ARISTOTELE, LA SCOPERTA DELLA CAUSA FINALE E DELL’ORDINE COSMICO

4 Set

ARISTOTELE,

LA SCOPERTA DELLA CAUSA FINALE E DELL’ORDINE COSMICO

 

Tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti lo scopo costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine.
(Metafisica)

 

Aristotele fu senza dubbio – assieme, anche se forse dopo, Platone – il più grande filosofo del mondo antico.

I suoi peculiari meriti scientifici e filosofici sono così vasti da rendere difficile se non impossibile elencarli. Se tuttavia dovessi farlo, molto sinteticamente direi:

  1. l’aver esteso l’ambito del sapere e della ricerca inventando nuovi settori o discipline (tutte, con l’eccezione della metafisica o scienza dell’Essere in generale, fondate su un’indagine PRIMA DI TUTTO empirica, anziché puramente astratta e concettuale), tra cui spiccano la logica, la fisica, la biologia e la psicologia;
  2. l’aver introdotto un nuovo metodo di indagine, più rigoroso e preciso rispetto al passato (più scientifico, diremmo oggi) in quanto fondato su una organizzazione estremamente logica e “matematica” dei concetti (… non a caso egli formalizzò le regole del corretto ragionamento, attraverso la logica), nonché su una maggiore attenzione (come si diceva già) per il fondamento empirico delle affermazioni (induzione);
  3. il tentativo di scomporre la conoscenza in un complesso di discipline che, assieme, formino un sapere organico (enciclopeismo) riguardante la totalità dell’Essere e del Conoscere.

 

Ma Aristotele non si limitò ad aggiungere nuovi settori alla ricerca e a perfezionarne il metodo di indagine in generale, egli fu anche un innovatore sostanziale dei contenuti delle filosofie precedenti e in particolare di quella platonica, da cui la sua prese le mosse e rispetto alla quale volle costituire un’evoluzione e un progresso. Ed è su questo aspetto di innovazione, più che su un’esposizione dettagliata dei contenuti (davvero vastissimi) della sua opera, che vogliamo soffermarci qui di seguito.

I primi due paragrafi perciò (La causa finale e l’Ordine universaleDalla trascendenza di Platone all’immanenza di Aristotele) saranno dedicati a questo tema essenziale, mentre un ultimo sarà dedicato a una sintesi estremamente schematica dei contenuti di fondo del nostro autore, onde facilitare al lettore l’impresa non semplice di orientarsi nella sua opera.

 

 

A. La causa finale e l’Ordine universale

 

 

Quando si parla di Aristotele in termini generali, solitamente si pensa subito (e anche molto giustamente) alle sue famose quattro cause: formale, materiale, efficiente e finale. Ciò che tuttavia balza all’occhio dopo uno studio un po’ più approfondito della sua opera e del suo pensiero è il fatto che, di esse, la prima e la più importante (in quanto logicamente fondante e allo stesso tempo discriminante rispetto al precedente pensiero platonico) è la causa finale.

1. Priorità della causa finale

Sul perché essa sia discriminante rispetto a Platone ci soffermeremo un po’ più avanti. Vediamo ora perché, nel discorso di Aristotele, essa sia la causa principale e originaria rispetto alla sequenza delle cause in generale.

Causa in generale è ciò che sta all’origine di un effetto, e causa finale è quel tipo di causa che dà origine a un oggetto in quanto fine o scopo ultimo di esso. Essa è quindi causa non in quanto crei materialmente l’oggetto, ma piuttosto in quanto lo crea idealmente, costituendone l’obiettivo o lo scopo finale. Ora, se esiste uno scopo (c. finale) che deve essere realizzato, dovrà esistere anche un mezzo col quale esso, attraverso un percorso determinato, verrà realizzato, e una condizione finale dell’oggetto in cui tale fine si potrà dire attuato, nonché un motore materiale che stia alla base del processo di creazione di tale oggetto.

Vediamo allora che il concetto di scopo è contemporaneamente all’origine, da un punto di vista logico, degli altri tre concetti: il ciò con cui o mezzo, il ciò a cui ovvero la forma finale dell’effetto (che è poi sempre lo scopo, visto tuttavia come punto d’approdo e non come punto d’origine e idea alla base del processo), il ciò da cui (in senso fisico e materiale) ovvero la causa efficiente o meccanica.

In altri termini, le tre rimanenti cause non avrebbero senso se si togliesse la prima, quella finale, né questa dal canto suo avrebbe senso se si togliessero le tre successive, attraverso le quali soltanto essa può acquisire consistenza non solo dal punto di vista di una concreta operatività, ma anche da quello meramente teorico astratto.

2. Importanza storica e natura rivoluzionaria della causa finale aristotelica

Perché e in che modo, quindi, Aristotele introdusse nella filosofia greca una novità straordinaria con la sua idea di causa finale? Innanzitutto, va notato che l’idea di causa finale, ovvero dell’esistenza di uno scopo in alcuni ambiti del reale, non è certamente un’invenzione aristotelica, ma un’evidenza cui nessuno può sfuggire: molte cose e azioni (sia naturali, sia artefatte), anche se forse non tutte, hanno chiaramente uno scopo e spesso esistono proprio in funzione di esso. Altra cosa però è dare a questo concetto, una portata cosmologica e ontologica pari a quella datagli da Aristotele (come vedremo meglio di seguito).

Inoltre va detto che Aristotele introdusse questa idea in un contesto platonico, ovvero in contrasto con l’impostazione del suo maestro, secondo il quale il divenire delle cose coinciderebbe con una sorta di disordine, di negatività ontologica, essendo segno per se stesso dell’instabilità e dell’irrazionalità di tutto ciò che è materiale (e ciò dal momento che il divenire ha luogo nel mondo materiale, mentre le realtà puramente astratte – le Idee iperuraniche postulate da Platone – non sarebbero passibili di mutamento!)

Al contrario del suo maestro, Aristotele introdusse l’idea che il divenire fosse qualcosa di razionale, in quanto appunto orientato finalisticamente!

Nel fatto che qualsiasi organismo nasca, si sviluppi e giunga a maturazione (cioè al compimento della sua forma o del suo scopo originario) e in seguito decada fino a scomporsi, Platone vedeva quindi il segno innegabile dell’irrazionalità del mondo degli enti corporei, imperfetti e labili (e ciò in contrasto con l’”Idea” di Uomo, di Cavallo, ecc… realtà eterne e perfettamente identiche a se stesse), mentre Aristotele all’opposto vedeva un processo finalistico assolutamente razionale, intrinseco alla struttura stessa dell’essere fisico sublunare, in quanto caratterizzato da un oscillare eterno tra potenza (fine non realizzato) e atto (fine realizzato o in atto).

Quel che allora il nostro introdusse nella filosofia greca fu – in totale contrasto con Platone – l’idea di un divenire necessario e non caotico, che ha costantemente luogo nel mondo delle entità corporee, e in particolare come già detto in quello sublunare, cui gli uomini appartengono.

Il bambino diventa uomo, il cucciolo animale, la pietra lanciata ricade verso la terra, ecc.: tutti i processi trasformativi insomma, non avvengono in modo casuale e disordinato ma ordinato e razionale.

Ma Aristotele si spinse ben più in là di così. Già il senso comune difatti (…un atteggiamento mentale nel quale molti, erroneamente, vedono la radice profonda del pensiero del nostro) comprende agevolmente questa cosa. Solo i filosofi, a volte, in virtù della loro originalità, non vedono cose tanto evidenti!

Aristotele tuttavia postulò anche l’esistenza di una sorta di “scala cosmica dei fini”, laddove ogni singola forma, oltre a realizzarsi attraverso un proprio percorso necessario (dall’uovo alla gallina, per esempio), costituisce la realizzazione del potenziale insito nella forma a sé immediatamente inferiore nell’economia del tutto, allo stesso tempo contenendo in se stessa un potenziale che non può esprimere e che si realizza invece nelle forme a lei superiori. Così, ad esempio, l’uomo è superiore alla scimmia e realizza delle potenzialità che questa per sua natura non può concretizzare (ma che in qualche modo già si affacciano in essa), e al tempo stesso si trova in una condizione di inferiorità in relazione alle intelligenze celesti (le stelle, cui Aristotele attribuiva un pensiero e una perfezione superiori alla nostra), che dunque realizzano un grado di perfezione ancora superiore a quella umana.

Aristotele disegnò così un grandioso affresco del Tutto, all’interno del quale ogni parte (ovvero ogni forma o causa formale, o, per dirla con Platone, ogni Idea) costituiva un gradino direttamente connesso a un gradino superiore da una parte e a uno inferiore dall’altra. Il concetto, a noi oggi tanto familiare da sembrare scontato, di un Universo ordinato (kosmos) nasce per la prima volta proprio con Aristotele. Altri filosofi prima di lui, i fisici in particolare, avevano immaginato l’esistenza di un’organizzazione ciclica del Tutto, e con essa avevano postulato l’esistenza di un ordine a esso immanente nonché immodificabile, ma mai nessuno si era spinto al livello di Aristotele nel delineare con precisione maniacale tutte le forme e parti di questo ordine.

La sua filosofia difatti, esplora in lungo e in largo (in gran parte attraverso discipline da lui stesso fondate) questa complessissima organizzazione cosmica. Tali discipline peraltro, o si occupano di un aspetto trasversale del cosmo (il movimento è ad esempio oggetto della fisica) o di una parte circoscritta di esso (ad esempio, gli animali di cui si occupa la biologia).

Anche per questo Aristotele fu, assieme a Platone, una presenza costante nell’orizzonte di pensiero degli antichi (e non solo), in quanto seppe dare un’immagine precisa e ordinata (che altri pensatori e scienziati poi svilupparono ulteriormente) del mondo in cui siamo immersi. Egli fu, per così dire, un Einstein del mondo antico, la cui scienza peraltro andava ben oltre i concetti di spazio e di tempo e della struttura dell’universo fisico, e si spingeva fino alla definizione dell’Essere in generale (scienza che oggi equivarrebbe forse alla scienza della materia, la fisica quantistica…), ma anche a discipline strettamente specialistiche come la psicologia, la biologia, la logica (ovvero la struttura del pensiero umano, che secondo lui rifletteva fedelmente quella del mondo esteriore!)

#[Sulla scienza in Aristotele, vedi postilla 2]

3. L’imperfezione del mondo sublunare e la perfezione di quello celeste

Resta da precisare il rapporto che esiste tra causa finale e causa formale da una parte, e causa materiale (anche detta sostrato) e causa efficiente dall’altra – ovvero tra atto (le prime due cause) e potenza (le ultime due).

Secondo Aristotele infatti, il regno della materia (o sostrato) e della causa efficiente (la quale è a sua volta una realtà di tipo fisico, quindi materiale e meccanica) è il regno della necessità cieca, priva di razionalità intrinseca; il regno delle forme e dei fini (cioè delle forme intese come scopo o termine ultimo del processo di trasformazione del sostrato materiale) è invece quello, potremmo dire, della Ragione come tale.

Non che tuttavia la materia o il sostrato siano realtà del tutto casuali e prive di una propria logica, anzi. Essi possiedono in qualche modo una propria struttura, di tipo (diremmo noi oggi) “meccanico” o “meccanicistico”, e Aristotele, pur non pronunciandosi in merito, non ci contraddice nemmeno… Ma sono sprovvisti di uno scopo come tale. La forma dunque “entra” nella materia o nel sostrato, lo conforma a se stessa, e in questo modo infonde in essa una razionalità che essa non possiede di per sé, formando con essa un sinolo (unione di forma e materia, dove la prima domina la seconda). E questa impresa la compie per mezzo della causa efficiente, la quale sta appunto a metà tra – ovvero collega come un ponte – la necessità cieca della materia e la razionalità delle forme e dei fini (due concetti che in realtà significano pressoché la stessa cosa).

Perché allora (ad esempio) non tutti gli uomini sono altrettanto perfetti, come sarebbero le Idee platoniche? Perché tutti gli individui sono portatori di differenze che, pur non qualificandoli necessariamente come migliori o peggiori reciprocamente, sono pur sempre tali? Perché infine a volte un uomo realizza interamente la forma uomo, mentre un altro (ad esempio, un pazzo, un cieco…) non la realizza del tutto ma è manchevole su alcuni aspetti?

E perché invece, nel modo celeste (cioè sopralunare) vi sono solo entità perfette, univoche, all’interno delle quali niente sfugge alla razionalità del fine o della forma e la materia soggiace per così dire interamente all’idea o allo scopo razionale che la informa?

La ragione è da ricercarsi nel diverso tipo di sostrato: la materia sublunare o terrestre è infatti riottosa a farsi domare, mentre quella celeste (etere) è molto più docile e come tale non “oppone resistenza” alla realizzazione delle forme.

In altri termini, la necessità meccanica del mondo in cui viviamo è troppo dura e resistente per poter essere piegata interamente, per mezzo ovviamente dell’azione meccanica della causa efficiente, all’idea: cosa che peraltro accade a volte di più, altre volte di meno. Del resto, gli enti di questo mondo sono tutti imperfetti (come già osservava Platone) e come tali destinati a perire, tanto che la loro peculiare immortalità risiede solo nella possibilità di riprodursi.

L’etere al contrario è maggiormente plastico e si piega meglio alla razionalità delle forme, tanto che gli enti celesti sono caratterizzati da un moto circolare (perfetto) e costante (eternamente identico a se stesso), e da un’intelligenza superiore a quella umana (essendo vivi essi sono dotati di pensiero e, non avendo gli astri esigenze appetitive, tale pensiero non può che essere speculativo o razionale, come e più di quello umano).

Anche qui vale la già citata visione scalare del Cosmo. Il mondo sublunare è imperfetto e tende alla perfezione celeste, alla sua stabilità e integrità. Il mondo celeste invece, pur essendo più perfetto di quello sottostante, in quanto capace di dominare perfettamente il proprio sostrato e il disordine a esso intrinseco, oltre che perché dotato di forme superiori quanto a perfezione rispetto a quelle terrene, si ispira e tende alla perfezione assoluta di Dio, ovvero di quel fine o forma che è così assoluto e perfetto da essere privo di ogni residuo di potenzialità o materialità#, e che è altresì il ricettacolo di tutte le cause finali o formali che risiedono nel Cosmo (sia nella sua parte celeste che in quella sublunare).

#[sul concetto di materia, vedi postilla 1]

4. La natura oggettiva delle quattro cause

Giova qui osservare, riguardo alle quattro cause aristoteliche, qualcosa di non immediatamente evidente al lettore moderno e come tale spesso origine di fraintendimenti.

A tutti difatti è chiaro che per costruire qualcosa servono: un sostrato materiale (causa materiale) e un mezzo tendenzialmente meccanico (causa efficiente) con cui costruirla, nonché un’idea di ciò che si vuole ottenere alla fine del processo di costruzione (cioè la causa finale o lo scopo, e la causa formale o la forma che dovrà essere raggiunta dall’oggetto fisico alla fine del lavoro).

Ma a noi moderni, abituati a concepire l’universo in termini pressoché esclusivamente meccanici (specie quando ci accostiamo a esso in termini tecnico-scientifici), le due ultime cause (formale e finale) sembrano per così dire dei fatti esclusivamente umani e soggettivi. Pensiamo ad esempio che non esista il Cavallo, ma solo degli organismi fisici singoli che, apparendoci affini tra loro in quanto caratterizzati da una struttura fisica simile tra loro, per semplicità e per istinto chiamiamo cavalli.

Proprio in forza di questo ragionamento, potremmo pensare, sminuendo così l’entità della scoperta aristotelica, che le sue due cause formale e finale siano in realtà, nonostante egli non lo ammetta o non lo veda chiaramente, delle specie di “sottocause” umane. Se non vi fosse l’uomo – potremmo pensare – nessuno parlerebbe di cavallo, anche se la natura meccanica delle cose creerebbe pur sempre quegli enti che noi, dal nostro soggettivo punto di vista, chiamiamo cavalli! Al contrario, anche se noi non ci fossimo, l’organismo cavallo funzionerebbe nello stesso modo e secondo la stessa logica (meccanica) che noi conosciamo, così come le cause efficienti della nascita e dell’evoluzione di tali organismi, pur ignorate da tutti, continuerebbero ad esistere e a operare.

In altri termini, molti moderni vedono in quelle due cause (formale e finale) qualcosa di astratto, di puramente mentale e umano o soggettivo. Per noi il Cosmo non è difatti una realtà dotata di scopi, di intenzioni e di fini, se non nella misura in cui noi ve li poniamo; esso per noi è, nella sua radice profonda, un enorme meccanismo senz’anima (come già peraltro aveva sostenuto Democrito attraverso la sua visione atomistica).

Da ciò deriva che Aristotele in realtà, dal nostro punto di vista, mescola tra loro quel che è reale e quel che è invece puramente mentale, prodotto dell’immaginazione e dell’intelligenza umane.

Ma per Aristotele le cose stavano esattamente nel modo opposto. Le forme erano difatti per lui qualcosa di reale al pari e forse più della materia in cui e attraverso cui si realizzavano, e il Cosmo – come si è detto – era un enorme “scala di fini”, un ordine qualitativamente crescente di forme la cui realizzazione attraverso la materia o sostrato, costituiva la ragione d’essere del Cosmo stesso, nonché in qualche modo una sua intenzione reale.

Pur non essendo la sua una visione animistica, insomma, Aristotele credeva in ogni caso in un Cosmo dotato di una propria spiritualità, di una propria vita razionale e quindi di una propria INTENZIONALITÀ. Per questo tutte e quattro le cause aristoteliche vanno, qualora le si voglia inserire nel pensiero del loro autore, comprese e considerate come cause oggettive e reali, e non (in particolare le ultime due) come convenzioni o astrazioni soggettive, utili senza dubbio per comprendere il nostro modo di accostarci alla realtà ma molto meno per comprendere la Realtà nella sua essenza profonda e intima.

Ma non si deve tuttavia nemmeno pensare che egli avesse un’idea personale del Cosmo, che lo concepisse come un essere pensante e consapevole di se stesso. Certo, gli uomini, le intelligenze celesti e Dio motore-immobile sono per lui esseri pensanti, come lo sono (anche se in forme più basse, in quanto non razionali, gli animali comuni, il cui pensiero è essenzialmente sensitivo e appetitivo); ma il Cosmo non è per se stesso un essere pensante, bensì al massimo un agglomerato di enti, molti dei quali appunto dotati di pensiero.

Dove sta allora l’intenzionalità di esso, se non vi è qualcuno che la pensa? Solo il primo cielo tende forse consapevolmente a Dio, vorrebbe raggiungerne scientemente la perfezione, le altre forme invece (soprattutto quelle sublunari) sono pressoché inconsapevoli di questo loro desiderio, che pure in qualche modo esiste, di trascendersi e superarsi, se è vero che per primo Aristotele, individuo eccezionale, ne ha compreso l’esistenza!

Allora come possiamo dire che l’Universo possiede una struttura finalistica e intenzionale, non solo nella ricostruzione che l’uomo ne fa col proprio pensiero, ma anche in se stesso?

Semplicemente perché esso esiste secondo una logica immanente, che costituisce la sua reale struttura ontologica, e che ha appunto le caratteristiche che il nostro ha individuato e descritto.

Ed esiste da sempre! Perché il mondo non è creato ma esiste da sempre e per sempre.

Aristotele quindi crede in un universo sì razionale ma privo al tempo stesso di un Creatore (e quindi anche di un atto intenzionale di creazione…) razionale: un universo che è da sempre e che per sempre sarà, dotato di una Ragione immanente che tuttavia non si pensa, ma che per così dire esiste in modo “meccanico”, ovvero appunto senza consapevolezza di se stessa.

 

 

B. Dalla trascendenza di Platone all’immanenza di Aristotele

 

 

PORTANTE2

Sia Platone che Aristotele si occuparono innanzitutto degli universali, ovvero di quelle idee o forme che sembrano costituire l’ossatura stabile del mondo sensibile, il fondo inalterabile del suo costante divenire e delle sue molteplici e variegate manifestazioni.

Come però illustra bene il celebre dipinto di Raffaello, il primo (indicando il cielo) collocava tali realtà al di sopra della dimensione sensibile, in un cielo oltre il cielo visibile (iperuranio), ovvero in una dimensione trascendente; il secondo (indicando la terra) le collocava invece all’interno del mondo immediatamente sperimentabile, rendendole così un aspetto di esso, qualcosa di immanente e non trascendente.

Qui sta appunto la differenza essenziale tra questi due pensatori: per il primo il Vero e l’Essere sono realtà intrinsecamente estranee al mondo sensibile, mentre per l’altro si identificano con esso. Per l’uno l’ordine o le idee si collocano essenzialmente al di fuori del cosmo, mentre per l’altro si realizzano solo in esso e attraverso esso.

La visione platonica infondo, è abbastanza semplice da comprendere: in alto stanno le Idee, al di sotto di esse il mondo sensibile in cui la materia è stata in qualche modo ad esse conformata, seppure in modo estremamente imperfetto. Il mondo è quindi una sorta di grottesca contraffazione del Vero, una caricatura di esso.

La visione aristotelica è invece più sfumata. Per lo stagirita infatti, esiste una polarità originaria tra potenza e atto, ovvero tra sostrato materiale (causa materiale) e forme (cause formale e finale). Questi due poli rimandano necessariamente l’uno all’altro, sono complementari tra loro, poiché senza materia non si potrebbe dare una reale esistenza alle idee, così come senza le idee la materia rimarrebbe una pura passività priva di senso.

L’unione di materia (potenza) e forma (atto) si realizza nella sostanza # o nel sinolo (due termini equivalenti), ovvero nella fusione di questi due termini complementari. Il termine sostanza è per molti aspetti corrispondente a ciò che Platone chiamava l’Essere, intendendo con ciò quel che realmente esiste, ma che, al contrario di Aristotele, egli collocava in un cielo soprasensibile, al di là del mondo che concretamente conosciamo.
#[sul concetto di sostanza, vedi postilla 3]

La differenza di prospettiva non potrebbe allora essere più recisa: per l’uno ciò che esiste si colloca oltre il Cosmo che ci circonda, per l’altro invece si colloca proprio in esso. Per Platone l’Ordine e la Ragione sono trascendenti, per Aristotele (come abbiamo già visto) sono rigorosamente immanenti.

Anche poi il “mezzo” o la causa ordinatrice attraverso cui la materia si conforma all’idea o forma universale, cambia radicalmente nelle due visioni. Platone infatti parla (nel Timeo) di un Demiurgo, di una sorta di divinità cosmica che avrebbe originariamente ordinato e conformato la materia in modo da renderla, entro un certo grado, affine alle Idee oltremondane, con tutte le conseguenze che sappiamo (instabilità, nascita e morte, imperfezione degli enti sensibili…) Aristotele invece, postula l’esistenza di un tipo di causa specifica, quella efficiente, il cui scopo è nell’universo della necessità meccanica e materiale creare enti strutturati razionalmente, ovvero secondo l’ordine e la logica delle forme pure (cause formali).

Anche qui le soluzioni approntate al medesimo problema sono opposte. Platone infatti parla di un ente ordinatore, unico e metafisico, il Demiurgo. Aristotele invece di una pluralità infinita di enti fisici (per se stessi sostanze) capaci di avviare un processo di tipo meccanico e materiale che determini la nascita delle forme, il loro concreto attuarsi nel regno della materialità. Di nuovo, l’uno postula un’entità trascendente, l’altro una serie di sostanze fisiche (infinita, poiché pressoché ogni reale è capace di divenire causa di qualcosa) alla base di questa fusione tra universale e particolare, tra idea astratta e entità concreta.

Etica e politica in Aristotele

Giova, a conclusione di questa breve retrospettiva del pensiero di Aristotele, fare alcuni cenni a altri due ambiti della sua speculazione, di carattere maggiormente pratico, ovvero alla scienza del “ben vivere”: individualmente e in società. In essi si riverbera ovviamente l’impostazione di fondo del pensiero aristotelico, così come del resto avviene per quello platonico.

Per Platone infatti, si tratta di migliorare il mondo, ovvero di avvicinarlo ulteriormente, soprattutto in sede politica, a quelle realtà trascendenti a cui esso imperfettamente si ispira e che ne costituiscono la componente originaria di ordine e giustizia. Per questo la prospettiva etico-politica platonica è fondamentalmente rivoluzionaria (Repubblica) o quantomeno riformatrice (Leggi).

Per Aristotele, al contrario, il punto non è cambiare il mondo o l’uomo, già di per sé razionali, ma valorizzarne la natura. La sua prospettiva in ambito etico e politico quindi, non è certamente di carattere rivoluzionario ma al più caratterizzata da spinte riformatrici, e in un senso comunque non ontologicamente migliorativo.

Come un moderno liberale, Aristotele non si chiede quale sia la costituzione perfetta, bensì quali tipi di costituzione esistano e quali vantaggi e svantaggi presenti ciascuna di esse al fine di favorire al meglio l’espletamento della natura umana, la quale è in ultima analisi una natura razionale e speculativa, e trova perciò la sua più alta soddisfazione nella conoscenza razionale (cioè nell’attività filosofica).

La città, l’organismo politico di base, deve secondo Aristotele servire alla felicità dei singoli individui, ovvero all’esercizio della ragione, che è ciò che distingue l’uomo dalle bestie e lo avvicina a Dio, ovvero al fine ultimo dell’Universo.

L’etica quindi è una scienza pratica: la “scienza della felicità”, ma la felicità per se stessa è al di fuori dell’etica, anche se è ciò a cui tale scienza mira (un po’ come l’Universo è mosso da Dio, anche se non è Dio). E l’etica si realizza solo nella comunità e attraverso di essa, poiché solo per mezzo di una vita collettivamente ben organizzata gli uomini possono ricavare quel surplus di tempo che permette loro di realizzare la propria felicità, cioè dedicarsi all’espletamento delle attività razionali e teoretiche, liberi dalle incombenze pratiche del vivere quotidiano.

Dunque la politica (scienza della gestione della città) serve l’etica (scienza dell’ottenimento della felicità individuale), la quale in ultima istanza serve l’uomo singolo nella sua ricerca del tempo e dei mezzi per essere felice, ovvero divino, attraverso la conoscenza.

Anche qui, a ben guardare, emerge l’impostazione finalistica del pensiero aristotelico: come l’universo è mosso dal desiderio di Dio, così l’universo umano è mosso dal desiderio della felicità, che è poi desiderio di avvicinarsi a Dio nei limiti delle possibilità umane.

 

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UN QUADRO GENERALE DEI CONCETTI

E DELLE OPERE DI ARISTOTELE

 

 

Gli argomenti trattati da Aristotele nei suoi molteplici trattati si dividono in due grandi categorie:

quelli teoretici e quelli non teoretici: pratici e poietici.

 

1) Quelli teoretici sono i più importanti, perché l’uomo è una creatura dedita (nella sua forma e nelle sue attività più alte) alla pura attività razionale e speculativa (che, come si è visto, lo avvicina a Dio ed è quindi il fine ultimo del suo vivere).

2) Quelli pratici riguardano invece il “ben vivere”, e ciò sia individualmente sia in società. Essi riguardano quella saggezza che porta, nella forma politica, a gestire bene la città (cioè la società) e, nella sua forma etica, la vita individuale, dando così all’individuo la possibilità di raggiungere il suo fine ultimo, cioè l’esercizio della speculazione o della teoresi (punto 1).

3) Quelli poietici sono infine legati al “fare” cose specifiche, come comporre poesie, opere, discorsi, ecc.

 

Ogni volta che l’uomo fa qualcosa, lo fa in funzione di qualcos’altro, che a sua volta ha una sua finalità, ecc. Questa circostanza implica l’esistenza di una gradualità degli scopi, che partire da scopi inferiori per altezza e nobiltà (anche se non per questo rinunciabili), passando attraverso scopi superiori, culmina infine in uno scopo sommo, che giustifica tutta la catena precedente!

Non può stupire allora il fatto che esista una “scala dei fini umani”, che inizia con le arti, ovvero con le tecniche specifiche (da quella dell’artigiano a quella del musico, del poeta, ecc.), prosegue con la politica e l’etica (dove la prima ha come scopo la seconda) e termina infine con la filosofia o l’attività razionale pura, o teoresi.

Infatti, ogni bene specifico (tecnico, politico ed etico) ha come fine ultimo la realizzazione della natura umana. La quale è possibile solo in e attraverso la società, in cui appunto le attività poietiche hanno luogo. Ma perché esista la società, almeno nella sua forma migliore o comunque in una forma non disfunzionale, è necessario che la comunità sia gestita bene (politica); se ciò avviene gli uomini possono allora vivere saggiamente (etica), in tal modo avendo occasione di svolgere quelle attività teoretiche, o filosofiche o speculative, che dir si voglia, che costituiscono lo scopo ultimo del suo esistere.

 

Tutta l’enorme costruzione concettuale di Aristotele dunque, ha una sua struttura gerarchica ben precisa, che riflette il suo pensiero cosmico-teoretico, basato a) sull’idea dell’esistenza di una scala di finalità culminante in Dio, e b) su quella secondo cui l’uomo, come creatura naturale, debba per forza di cose tendere a avvicinarsi entro le sue possibilità a un tale punto culminante, “divinizzandosi” nella conoscenza teoretica pura.

 

[ Attività poietiche >
Attività politiche >>
Attività etiche >>>
Attività teoretiche! ]

 

1) Anche le attività teoretiche sono divise al loro interno: da una parte abbiamo la Filosofia Prima (poi chiamata metafisica), seguita dalla Filosofia Seconda o Fisica, affiancata dalla Psicologia (che ne costituirebbe una parte) e dalla Logica (scienza del vero e del falso dal punto di vista del pensiero umano).

2) Vi sono poi la Politica e l’Etica, come già detto, in cui si divide la scienza pratica.

3) Vi sono infine la Poetica, la Retorica e le Confutazioni sofistiche (ovvero l’arte di smascherare i falsi ragionamenti, propri dei sofisti e di coloro che ingannano l’uditorio con i loro discorsi – quest’ultimo argomento peraltro, fa parte anche della logica, in quanto disciplina che si occupa dei ragionamenti corretti o scorretti).

Le opere, quantomeno le principali, sono le seguenti:

1) Filosofia prima: Metafisica

Filosofia seconda: Fisicail CieloLa generazione e la corruzioneLa meteorologia

Psicologia: Sull’Anima

Logica: Organon, diviso in: Analitici Primi e Analitici Secondi – Categorie – Topici – Confutazioni sofistiche (vedi anche punto 3)

 

2) Etica: Etica Nicomachea – Grande etica – Etica Eudemia

Politica: Politica

 

3) Poetica: Poetica

Retorica: Retorica

Confutazioni sofistiche: Confutazioni sofistiche

 

In più Aristotele scrisse alcuni trattati sugli animali, occupandosi quindi di biologia o scienza della vita organica: Storia degli animaliTrattato degli animali

 

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Alcuni approfondimenti su concetti importanti del pensiero di Aristotele

 

 

1) Il concetto di materia, potenza o sostrato

2) Alcuni caratteri della scienza aristotelica

3) Il concetto di sostanza

 

 

1) Il concetto di materia, potenza o sostrato

 

Una precisazione va fatta in merito ai concetti (in gran parte equivalenti) di materia (o causa materiale), di potenza e di sostrato (ovvero ciò a partire da cui – in seguito all’azione di una causa efficiente che opera in funzione di una determinata causa finale – può svilupparsi una nuova sostanza o sinolo).

Questi tre concetti hanno infatti un valore relativo, piuttosto che assoluto. Non esiste una pura potenzialità, una materia assolutamente indeterminata. Quantomeno non esiste “in atto”, dal momento che la materia, pur essendo di per sé pura potenzialità, per esistere concretamente deve sempre – in quanto appunto, ha acquisito i caratteri dell’esistenza! – attuarsi in una forma determinata e cessare di esistere come potenza.

Ma se la materia si trova sempre, per forza di cose, ad esistere in una forma già attuata, come possiamo affermare che sia effettivamente materia, ovvero potenzialità di una nuova forma? Semplicemente perché, pur esistendo già come attuazione di una forma, come parte di una sostanza in atto, essa potrebbe effettivamente diventare una nuova sostanza attraverso un determinato processo di trasformazione.

Dunque, si può dire che la materia o potenza sia sempre in realtà una sostanza determinata che potrebbe trasformarsi in una nuova sostanza?

La risposta può essere al tempo stesso sì e no.

È indubbio difatti, ad esempio, che l’alimento che ho nel piatto potrebbe trasformarsi nella mia stessa carne, nelle mie ossa, nel mio sangue, ecc. Ovvero, che esiste una sostanza la quale, da me ingerita e digerita, diventerebbe parte del mio corpo. Ma, osserva Aristotele, anche questa prima sostanza (l’alimento) esiste in quanto proviene dalla trasformazione di un precedente sinolo, e lo stesso vale all’infinito per le sostanze o sinoli a essa precedenti.

Allora, se ne evince che una qualche materia pura, una qualche pura potenzialità, che da sempre e per sempre funge da sostrato per questa lunghissima catena di sostanze, deve pur esistere da qualche parte. Ma dove, se ogni sostanza nasce appunto da un’altra sostanza, e mai direttamente da questa potenzialità assoluta?

Qualcuno potrebbe forse ipotizzare che una tale potenzialità pura sia esistita solo all’inizio di questo lunghissimo processo di trasformazione, ovvero con la nascita del Cosmo. Ma un tale inizio temporale per Aristotele non è possibile, poiché (come si è visto) il mondo secondo lui esiste da sempre e per sempre. Il tempo infatti, ovvero la lunga e infinita catena degli eventi, non è mai iniziato né mai cesserà di esistere: è per così dire un’eternità in movimento, ovvero un eterno movimento.

Inoltre, si è già osservato che la potenzialità, in quanto tale, non può esistere in atto, né quindi essere esperibile come un oggetto reale. Essa (per definizione) esiste sempre e da sempre in un modo solo potenziale, invisibile ai sensi, come ciò da cui possono, potevano e potranno sorgere delle sostanze determinate. Mai tuttavia come una potenzialità pura, avulsa da qualsiasi forma specifica.

Allora sorgono spontanee alcune domande:

a) Dove e in che forma esiste una tale materia originaria (ule, in greco), una tale indeterminatezza o assenza totale di forme?

Essa esiste dovunque esistano sostanze o sinoli, ovvero unioni di forma e materia.

b) E in che forma esiste?

Esiste e può esistere soltanto come qualcosa di potenziale, di invisibile, ovvero in relazione a forme determinate che attraverso di essa si sono ormai attuate o si attueranno.

I concetti (essenzialmente equivalenti) di materia, potenza e sostrato hanno dunque valore per Aristotele solo come concetti non assoluti, se con il termine assoluti si intende reali, coincidenti cioè con qualcosa di concretamente esistente e verificabile, oggi o in passato o in futuro. Quelli di materia, sostrato e potenzialità sono per loro natura dei concetti-limite, che non rimandano a nulla di realmente esperibile, mentre d’altro canto attorno a noi potremo avere sempre e solo oggetti concreti o in atto, ovvero forme che si sono attuate attraverso e per mezzo di tale materia, in virtù appunto della sua natura potenziale e generativa.

Si può dunque dire che la materia esiste sempre e soltanto in relazione a dei sinoli, a delle sostanze o oggetti concreti, come parte di essi, mai in modo avulso da ciò che la completa e le dà un senso, ovvero dalla forma.

 

2) Alcuni caratteri della scienza aristotelica

 

Aristotele può forse – almeno da alcuni punti di vista – essere considerato il primo scienziato occidentale, il fondatore stesso dei caratteri essenziali della scienza moderna.

Tra essi, e prima di tutti, annoveriamo: a) l’importanza dell’utilizzo di un metodo di tipo empirico e sperimentale; b) e parallelamente quella di un uso rigoroso del discorso, sulla base delle regole inderogabili della sua logica (da lui chiamata Organon, strumento): in altri termini il rifiuto di qualsiasi forma di espressione linguistica imprecisa e aleatoria (almeno in ambito scientifico o teoretico).

c) Egli inoltre, come si è detto, ha posto per molti versi le basi stesse dell’idea di Universo che sta a fondamento della scienza attuale, postulando l’esistenza di un’organizzazione cosmica la cui complessità è pari solo alla sua stabilità, dal momento che quel complicatissimo complesso di regolarità non può cambiare, essendo da sempre e per sempre identico a se stesso.

 

Tuttavia Aristotele fu anche, per molti aspetti, un uomo antico, premoderno.

Questo appare chiaramente qualora si osservi la priorità che egli riserva alla causa finale rispetto a quella efficiente (meccanica) nella spiegazione e descrizione dei fenomeni naturali e della struttura stessa del Cosmo. Infatti, da mente speculativa e astratta qual era, e in sintonia con i caratteri della società e della cultura antiche della quale il suo pensiero è espressione, egli non era tanto interessato a comprendere il “come” delle cose, quanto piuttosto il finalismo insito in esse e nella natura.

Ciò perché, come si è già mostrato, finalismo significava per lui ordine e armonia, contro il disordine insito sia nel caos assoluto, sia nel puro meccanicismo (una visione che nel mondo antico fu rappresentata soprattutto dagli atomisti), cioè in un tipo di ordine privo di scopi e, quindi, intimamente irrazionale.

La sua era una mente speculativa e teoretica, che come tale “pensava in grande”, avendo sempre un occhio più per il sistema nel suo complesso, che per le sue parti e i suoi dettagli. I fenomeni specifici erano da lui osservati , almeno prevalentemente, in quanto parti di un ordine cosmico, piuttosto che per se stessi, né egli probabilmente sentiva eccessivamente forte la necessità di conoscerli per dominarli e piegarli ad interessi pratici umani.

Ciò del resto non è un caso, poiché le basi produttive del mondo antico erano essenzialmente costituite dagli animali e dagli schiavi, ragion per cui esso – contrariamente al mondo moderno – non si interessava eccessivamente all’implementazione dei propri strumenti tecnologici, e quindi ad acquisire un dominio operativo sulla natura.

Sarà la scienza moderna a sviluppare maggiormente questa seconda attitudine. Alla luce di un tale atteggiamento di fondo, si spiega il suo interesse per l’indagine sul funzionamento meccanico (il “come”, anziché lo “scopo”) dei fenomeni naturali, nonché l’utilizzo della matematica in qualità di strumento di calcolo e di previsione esatta, e quindi di controllo infallibile, dei fenomeni naturali.

Nella scienza aristotelica, invece, prevale tutto sommato un atteggiamento diverso, che guarda per così dire da lontano i singoli aspetti del reale, preoccupandosi principalmente di inserirli in una visione armonica del Tutto, piuttosto che di comprenderne a fondo il funzionamento onde imbrigliarli ai fini della potenza umana.

Certo, l’atteggiamento di Aristotele, che vede nel sinolo, unione di forma e materia, ovvero nella concretezza, la sostanza ultima delle cose, la loro realtà più profonda, costituisce un grosso passo avanti rispetto all’astrattezza assoluta dell’idealismo platonico, del suo mondo iperuranico. Anche per questo possiamo dire che Aristotele contribuì in modo sostanziale a fondare la scienza moderna.

Ma perché quest’ultima potesse nascere davvero, nella sua forma attuale, bisognerà attendere Galileo e i suoi esperimenti o interrogazioni attive della Natura, volti a far rivelare a quest’ultima i suoi più intimi segreti, espressi oramai attraverso formule matematiche esatte: le leggi a partire dalle quali è possibile dominare l’ambiente circostante e renderlo uno strumento del volere umano.

Con Galilei e con la scienza successiva quindi, usciamo definitivamente da una prospettiva di tipo speculativo, quale quella insita nella cultura filosofica antica e, nello specifico, nel pensiero di Aristotele.

 

3) Il concetto di sostanza

 

Il concetto di Sostanza in Aristotele, equivale per molti aspetti a quello di Essere in Platone. Entrambi stanno a indicare qualcosa che esiste necessariamente, razionalmente (il che significa in modo unitario e finito in se stesso), e che come tale può essere oggetto di conoscenza.

Vi è tuttavia una grande differenza tra l’Essere trascendente di Platone, il mondo delle Idee, e la Sostanza aristotelica, sinolo di forma e materia: il primo è sì assoluto, ma in modo refrattario a tutto ciò che non è assoluto, ovvero al mondo sensibile; il secondo invece, non solo è assoluto ma funge per sua intrinseca natura da sostegno per ciò che non lo è, e che attraverso esso riceve la proprietà di esistere realmente.

Di nuovo, notiamo qui due visioni contrapposte: la ragione e la razionalità per Platone escludono da sé il mondo sensibile (non caso egli colloca il mondo iperuranio oltre il cielo visibile); per Aristotele invece, si radicano in tale mondo.

Se la ragione è l’unico strumento per giungere alla verità, in un caso (Platone) essa porta il filosofo oltre le cose sensibili, nell’altro (Aristotele) all’essenza di esse, in quanto la forma è, nella sua concretezza di sostanza o sinolo, il cuore e il fondo stabile delle cose sensibili.

1) La sostanza come sinolo:

Ma torniamo alla prima affermazione, secondo la quale l’assoluto aristotelico, da lui chiamato sostanza, non sarebbe refrattario ma anzi intimamente legato a tutto ciò che è relativo e contingente.

Ma cosa si intende con quest’ultima espressione (“tutto ciò che è relativo e contingente”)? Si intende una serie di attributi sempre e rigorosamente necessari per definire qualsiasi cosa: qualità, quantità, relazione, azione, passione, dove, quando. Ogni cosa infatti, ogni fenomeno, possiede delle qualità e delle quantità determinate, delle relazioni con altri oggetti, agisce su alcune cose (causa) e subisce l’azione di altre (effetto), si colloca in un luogo e un tempo determinati. (*)

Un altro carattere che i fenomeni sensibili sempre possiedono, e che non contrasta con questi concetti (anzi per molti aspetti li include e li riassume) è quello della contingenza. Tali attributi infatti, descrivono spesso l’aspetto contingente delle cose. (Ad esempio un certo uomo è biondo, alto 180 cm, è parente di…, ha generato…, è stato generato da…, vive a…, ecc., tutti caratteri che esso ha ma che, contrariamente, ad esempio, all’avere due braccia e due gambe, potrebbe non avere.)

Tutte queste qualità, come si vede, sono relative a qualcosa di stabile, ed è proprio per questo legame che effettivamente sono, esistono.

Ma rispetto a cosa sono relative, da cosa dipendono? Da quella sostanza, sinolo di forma e materia, che ne costituisce il fondo stabile, il “pilastro” che le tiene in piedi. Per usare il precedente esempio, prima che essere alto 180 cm, biondo, parente di…, ecc., quell’uomo deve essere senz’altro un determinato uomo, ovvero appunto l’attualizzazione della forma uomo in una data materia, quel singolo individuo umano, quello specifico sinolo di forma e materia.

Dunque, riassumendo: le forme assolute, razionali e conoscibili, esistono (oltre che nella mente del Motore immobile, ovvero dell’Intelletto sommo, il quale tuttavia non le ha create, né si identifica con esse, avendo con esse null’altro che un rapporto conoscitivo!) soltanto nel mondo sensibile, dove esistono in forma di sinoli, in unione cioè con la materia, e proprio per questo come enti reali e non meramente astratti.

I sinoli sono quindi la sostanza, ciò che davvero esiste (…più o meno, in questo senso, l’equivalente di quel che erano le Idee per Platone). Da essi, in quanto sostanza o carattere fondamentale dell’Essere in generale, dipendono tutti gli altri attributi sopra citati.

La sostanza o sostanzialità, è il nucleo forte e inscalfibile dell’essere, la sua essenza pura e filosoficamente giustificabile (ovvero necessaria e razionale), gli altri caratteri ne costituiscono invece le componenti relative, passeggere e comunque in gran parte casuali, le quali tuttavia non per questo smettono di essere reali (come pensava Platone) ma al contrario ricevono dal legame con la sostanza l’attributo della realtà.

Aristotele, usando una metafora sintattica (per nulla casuale, poiché Linguaggio e Pensiero sono per lui la copia esatta della Realtà!), afferma che la sostanza è ciò di cui si predicano delle cose (attributi), ma che di per sé non può essere predicata di (attribuita a) nulla, in quanto appunto finita in se stessa, autonoma rispetto al resto: in una parola, appunto, sostanza.

(*) Aristotele affermava che l’Essere “si dice in tanti modi”, ovvero secondo tante diverse accezioni. Proprio sulla base di sue queste diverse sfumature, sorgono le varie discipline specialistiche. Ad esempio, la fisica studia il mondo in quanto soggetto di movimento, ovvero soffermandosi sul suo carattere di continua trasformazione spaziale e temporale (dove e quando). Oltre che sulle 4 cause, viste come cause del movimento stesso.

 La Filosofia prima o metafisica invece, studia l’Essere in quanto tale, ovvero studia la sostanza (attributo primo di esso). E studia anche Dio (teologia) poiché esso è sostanza pura, forma priva di materia, che si colloca al di là del mondo fisico in movimento.

2) La sostanza come forma

Tuttavia, se i sinoli sono sostanze, ovvero realtà autosussistenti, che accolgono attributi ma non sono attribuibili a nulla, i componenti ultimi della realtà sensibile, a maggior ragione dovranno esserlo anche quelle forme o atti che vi sono a base.

Infatti, i singoli individui passano ma la forma che dà loro l’attributo essenziale (ad esempio, l’essere uomini) non può smettere di esistere.

Aristotele quindi afferma che le forme o gli atti puri costituiscono la Sostanza prima e che i sinoli invece, in quanto realtà derivate dai primi, costituiscono la Sostanza seconda.

In questo modo egli sembra tornare al Platonismo, e forse in un certo senso lo fa. Ma si deve in ogni caso tener presente che tali forme non esistono autonomamente dal sensibile in cui si attuano, pur andando in qualche modo al di là di esso, in quanto godono (in quanto eterne) di un’autonomia sostanziale rispetto agli enti concreti la cui esistenza si colloca in un periodo di tempo finito.

[Come detto, esse esistono effettivamente come forme pure (cioè prive di materialità o potenza) nella mente del Motore Immobile, il quale tuttavia intrattiene con esse un rapporto meramente conoscitivo. Esse non sono cioè prima di tutto in Dio, come in una sorta di “iperuranio aristotelico”, ma al contrario esistono prima di tutto nel mondo, come realtà sostanziali, e esistono in Dio solo come semplici oggetti di conoscenza, in quanto questi è pura scienza in atto.]

3) La sostanza come materia o potenza

In una prospettiva che prescinda dal tempo, quantomeno da determinazioni temporali specifiche, le forme sono sostanza al pari, e anzi in senso più profondo ed essenziale rispetto ai sinoli, in quanto ne costituiscono una componente costitutiva: il sinolo è in questo senso un attributo della forma o dell’atto, e non viceversa.

A questa stregua, però, anche la materia dovrebbe essere sostanza, in quanto appunto il sinolo è unione di forma e materia!

E infatti così è, anche se Aristotele afferma a volte che essa lo è in un senso molto improprio, a causa della sua natura passiva e indeterminata, bisognosa perciò di qualcosa che le dia un senso, che la definisca.

Materia, potenza e sostrato sono quindi sostanza in un’accezione minore, sono – per così dire – una semi-sostanza!

 

Conclusioni:

il finalismo e il concetto di sostanza nel pensiero di Aristotele

 

Abbiamo aperto questo scritto parlando del finalismo, inteso come il concetto cardine del pensiero aristotelico. Lo abbiamo concluso con il concetto di sostanza, inteso come il fondo stabile dell’Essere che non si oppone a tutto ciò che è relativo e instabile, ovvero al movimento e all’insieme degli aspetti contingenti e casuali del reale, bensì al contrario li sostiene.

Ci pare quindi necessario, concludere con una breve esposizione di come questi due concetti basilari della filosofia del nostro si integrino e si sostengano tra loro, sottolineando al tempo stesso come, almeno da un certo punto di vista, quella di finalismo possa essere considerata l’idea prevalente.

Nella visione di Aristotele infatti, il Cosmo è un insieme di sostanze ordinate gerarchicamente e finalisticamente, e culminanti in una sostanza somma, il Motore Immobile, che è fine delle altre sostanze ma non ha altro fine oltre a se stessa, in tal modo interrompendo l’ordine potenzialmente infinito delle cause finali.

Ancora una volta, si vede chiaramente che è il finalismo a sostenere l’idea di sostanza, più o meno nello stesso modo in cui la forma sostiene, dandogli un ordine e un senso definito, la materia. L’idea di sostanza difatti, è funzionale (quindi sottomessa) a quella di un orientamento finalistico del Cosmo; mentre quella di finalismo trova in quella di sostanza uno strumento per realizzarsi concretamente in un sistema concettuale definito.

 

 

 

Adriano Torricelli, 17/09/2018

 

 

Scarica versione in pdf: ARISTOTELE-Metafisica

 

VAI ALLA SINTESI ESPLICATIVA DEL TESTO: https://adrianotorricelli.wordpress.com/2018/09/17/sintesi-del-testo-su-aristotele/

Sinesio – Elogio della Calvizie (I.)

10 Giu

Sinesio – Elogio della Calvizie

Sinesio Calvizie

 

ΔΙΩΝΟΣ ΚΟΜΗΣ ΕΓΚΩΜΙΟΝ

 

L’ELOGIO DELLA CHIOMA DI DIONE

Ex Synesii Encomio Calvitii (pp 63 sqq. Petav.)

 

Δίωνι τῷ χρυσῷ τὴν γλῶτταν ἐποιήθη βιβλίον, Κόμης Ἐγκώμιον, οὕτω δή τι λαμπρὸν ὡς ἀνάγκην εἶναι παρὰ τοῦ λόγου φαλακρὸν ἄνδρα αἰσχύνεσθαι.

Da Dione dall’eloquio d’oro [letteralm., Da Dione d’oro quanto alla lingua], è stato scritto un libro, l’Encomio della chioma, tanto luminoso da costringere con la sua logica un individuo calvo a vergognarsi [letteralm., da essere necessario che un calvo si vergogni].

 

συνεπιτίθεται γὰρ ὁ λόγος τῇ φύσει· φύσει δὲ ἅπαντες ἐθέλομεν εἶναι καλοί, πρὸς ὃ μέγα μέρος αἱ τρίχες συμβάλλονται, αἷς ἡμᾶς ἐκ παίδων ἡ φύσις ᾠκείωσεν.

Difatti il ragionamento si sviluppa secondo natura: per natura tutti desideriamo essere belli, cosa nella quale [letteralm., verso la qual cosa] una grossa parte svolgono i capelli, cui la natura ci abitua sin da bambini.

 

ἐγὼ μὲν οὖν καὶ ὁπηνίκα τὸ δεινὸν ἤρχετο καὶ θρίξ ἀπερρύη, μέσην αὐτὴν “δέδηγμαι τὴν καρδίαν”, καὶ ἐπειδὴ προσέκειτο μᾶλλον, ἄλλης ἐπ’ ἄλλη πιπτούσης, ἤδη δὲ καὶ σύνδυο καὶ κατὰ πλείους καὶ ὁ πόλεμος λαμπρὸς ἦν, ἀγομένης καὶ φερομένης τῆς κεφαλῆς, τότε δὴ τότε χαλεπώτερα πάσχειν ᾤμην ἢ ὑπ’ Ἀρχιδάμου τοὺς Ἀθηναίους ἐπὶ τῇ δενδροτομίᾳ τῶν Ἀχαρνῶν, ταχύ τε ἀπεδείχθην ἀνεπιτήδευτος Εὐβοεύς, οὓς “ὄπιθεν κομόωντας” ἐστράτευσεν ἐπὶ Τροίαν ἡ ποίησις.

Io dunque quando ebbe inizio la catastrofe e la capigliatura cominciò a cadere (ἀπερρύη è aor. III da ἀπορρέω), fui colpito al cuore (δέδηγμαι perf. medio-pass. di δάκνω), e proprio nel mezzo, e poiché la cosa andava avanti (προσέκειτο μᾶλλον: giaceva dappresso di più), cadendo uno dopo l’altro, e già due alla volta e in gran quantità (κατὰ πλείους) ed era chiaro l’esito della battaglia [letteralm., era chiara la battaglia], cosa doveva diventare la mia testa [letteralm., essendo condotta e spinta la testa = dove era condotta e spinta la testa], pensavo (ᾤμην imperf. da οἴομαι) di patire cose più insopportabili (di quelle) che (patirono) gli Ateniesi (τοὺς Ἀθηναίους [πάσχειν]: propos. infinitiva, comparata con χαλεπώτερα πάσχειν) sotto Archidamo durante la devastazione del demo di Acarne [letteralm., degli Acarni, un demo ateniese], e presto apparvi [letteralm., fui svelato] come un sempliciotto Eubeo, i quali (gli Eubei) la poesia schierava a Troia, “coi capelli che cascavano sulla schiena” [“ὄπιθεν κομόωντας”, verso omerico, che letteralmente significa: che fanno crescere la chioma dietro, dove ὄπιθεν = ὄπισθεν; κομόωντας = part. accus. plur. da κομάώ ο κομέω: tengo lunghi i capelli].

 

Ἐν ᾣ τινα μὲν θεῶν, τίνα δὲ δαιμόνων παρῆλθον ἀκατηγόρητον; ἐπεθέμην δὲ καὶ Ἐπικούρου τι γράφειν ἐγκώμιον, οὐ κατὰ ταὐτὰ περὶ θεῶν διακείμενος, ἀλλ’ ὡς ὅ τι κἀγὼ δυναίμην ἀντιδηξόμενος.

Nella quale situazione (Ἐν ᾣ) quale degli dei, quale dei demoni potevo considerare innocente [letteralm., passai in rassegna (riscontrandolo) innocente]? Iniziai anche a scrivere un encomio di Epicuro, non poiché condividevo le stesse idee sugli dei, ma per punzecchiali a mia volta (ἀντιδηξόμενος, partic. futuro medio-pass. con valore di scopo, da ἀντιδάκνω) per quanto anch’io potessi farlo [letteralm., come/nella misura in cui (ὡς) anch’io qualcosa (ὅ τι) potessi].

 

ἔλεγον γὰρ ὅτι ποῦ τὰ τῆς προνοίας ἐν τῷ παρ’ ἀξίαν ἑκάστου; καὶ τί γὰρ ἀδίκων ἐγὼ φανοῦμαι ταῖς γυναιξὶν ἀειδέστερος; οὐ δεινὸν εἰ ταῖς ἐκ γειτόνων· τὰ γὰρ εἰς Ἀφροδίτην ἐγὼ δικαιότατος κἂν τῷ Βελλεροφόντῃ σωφροσύνης ἀμφισβητήσαιμι.

MI chiedevo difatti [letteralm., dicevo il fatto che: ἔλεγον ὅτι] dove (fossero finite) le cose della provvidenza nel (dare: ἐν τῷ…) secondo il merito di ciascuno? E che ingiustizia avevo commesso io per apparire orrendo alle donne? [letteralm., E infatti, avendo peccato in cosa (τί ἀδίκων;), apparirò (φανοῦμαι) orrendo alle donne?Niente di terribile se (ciò accadeva) per le (donne) del vicinato; io infatti sono timoratissimo sulle (cose) di Afrodite e potrei sfidare Bellerofonte in fatto di saggezza.

 

ἀλλὰ καὶ μήτηρ, ἀλλὰ καὶ ἀδελφαί, φασί, τῷ κάλλει τι νέμουσι τῶν ἀρρένων.

Ma anche una madre, anche le sorelle, dicono, danno un certo valore [letteralm., concedono qualcosa] alla bellezza dei parenti maschi.

 

ἐδήλωσε δὲ ἡ Παρύσατις, Ἀρταξήρξην τὸν βασιλέα διὰ Κῦρον τὸν καλὸν ἀποστέρξασα.

Lo dimostrò Parisatide, disamorandosi del re Artaserse a favore del bel Ciro.

 

Aristotele, De anima 408b.18

8 Giu

Aristotele

De anima 408b.18

 

ὁ δὲ νοῦς ἔοικεν ἐγγίνεσθαι οὐσία τις οὖσα, καὶ οὐ φθείρεσθαι. μάλιστα γὰρ ἐφθείρετ’ ἂν ὑπὸ τῆς ἐν τῷ γήρᾳ ἀμαυρώσεως, νῦν δ’ ὥσπερ ἐπὶ τῶν αἰσθητηρίων συμβαίνει· εἰ γὰρ λάβοι ὁ πρεσβύτης ὄμμα τοιονδί, βλέποι ἂν ὥσπερ καὶ ὁ νέος. ὥστε τὸ γῆρας οὐ τῷ τὴν ψυχήν τι πεπονθέναι, ἀλλ’ ἐν ᾧ, καθάπερ ἐν μέθαις καὶ νόσοις.
καὶ τὸ νοεῖν δὴ καὶ τὸ θεωρεῖν μαραίνεται ἄλλου τινὸς ἔσω φθειρομένου, αὐτὸ δὲ ἀπαθές ἐστιν. τὸ δὲ διανοεῖσθαι καὶ φιλεῖν ἢ μισεῖν οὐκ ἔστιν ἐκείνου πάθη, ἀλλὰ τουδὶ τοῦ ἔχοντος ἐκεῖνο, ᾗ ἐκεῖνο ἔχει. διὸ καὶ τούτου φθειρομένου οὔτε μνημονεύει οὔτε φιλεῖ· οὐ γὰρ ἐκείνου ἦν, ἀλλὰ τοῦ κοινοῦ, ὃ ἀπόλωλεν· ὁ δὲ νοῦς ἴσως θειότερόν τι καὶ ἀπαθές ἐστιν.
ὅτι μὲν οὖν οὐχ οἷόν τε κινεῖσθαι τὴν ψυχήν, φανερὸν ἐκ τούτων· εἰ δ’ ὅλως μὴ κινεῖται, δῆλον ὡς οὐδ’ ὑφ’ ἑαυτῆς.
πολὺ δὲ τῶν εἰρημένων ἀλογώτατον τὸ λέγειν ἀριθμὸν εἶναι τὴν ψυχὴν κινοῦνθ’ ἑαυτόν· ὑπάρχει γὰρ αὐτοῖς ἀδύνατα πρῶτα μὲν τὰ ἐκ τοῦ κινεῖσθαι συμβαίνοντα, ἴδια δ’ ἐκ τοῦ λέγειν αὐτὴν ἀριθμόν.
———————————–
ὁ δὲ νοῦς ἔοικεν ἐγγίνεσθαι οὐσία τις οὖσα, καὶ οὐ φθείρεσθαι.
Il comprendere sembra (ἔοικεν) sopravvenire (ἐγγίνεσθαι) come una qualche essenza che è (οὐσία τις οὖσα), e non si guasta (φθείρεσθαι).
*(nota la costruzione sintattica: l’infinitiva ha il soggetto al nominativo (ἐγγίνεσθαι οὐσία τις), il quale soggetto è lo stesso della proposiz. reggente (οὐσία τις ἔοικεν)!!!)
**(In questa proposizione, Arist. vuole dire che l’intelletto sembra essere qualcosa di reale, di stabile, di non deperibile… il che lo pone in contrasto col corpo!)
μάλιστα γὰρ ἐφθείρετ’ ἂν ὑπὸ τῆς ἐν τῷ γήρᾳ ἀμαυρώσεως, νῦν δ’ ὥσπερ ἐπὶ τῶν αἰσθητηρίων συμβαίνει·
infatti soprattutto si corromperebbe per l’oscuramento nella vecchiaia, ma (ora) accade (συμβαίνει è qui usato in senso impersonale) come per gli organi della percezione (αἰσθητηρίων):
εἰ γὰρ λάβοι ὁ πρεσβύτης ὄμμα τοιονδί, βλέποι ἂν ὥσπερ καὶ ὁ νέος.
se infatti un vecchio prendesse un tale (τοιονδί->tale, cioè come quello di un giovane) occhio, vedrebbe come anche un giovane [vede].
ὥστε τὸ γῆρας οὐ τῷ τὴν ψυχήν τι πεπονθέναι, ἀλλ’ ἐν ᾧ, καθάπερ ἐν μέθαις καὶ νόσοις.
Cosicché la vecchiaia [giunge] non per aver sofferto qualcosa (τῷ… τι πεπονθέναι) nell’anima, ma nel corpo (letteralm., “nel quale”, ovvero in quello, riferito al corpo), come ad esempio [accade] in eccessi o malattie.
καὶ τὸ νοεῖν δὴ καὶ τὸ θεωρεῖν μαραίνεται ἄλλου τινὸς ἔσω φθειρομένου, αὐτὸ δὲ ἀπαθές ἐστιν.
E certamente il comprendere e il ricercare si affievoliscono poiché qualcosa d’altro dentro [il corpo] si deteriora (genit. assol., ἄλλου τινὸς ἔσω φθειρομένου), ma esso (=il ricercare e il comprendere) è immutabile.
τὸ δὲ διανοεῖσθαι καὶ φιλεῖν ἢ μισεῖν οὐκ ἔστιν ἐκείνου πάθη, ἀλλὰ τουδὶ τοῦ ἔχοντος ἐκεῖνο, ᾗ ἐκεῖνο ἔχει.
Il pensare e l’amare o l’odiare non sono patimenti di quello (=dell’anima pensante), ma di questo (τουδὶ = il corpo) che la possiede, nella misura in cui (ᾗ usato in senso avverbiale: dove->come->nella misura in cui) la possiede.
διὸ καὶ τούτου φθειρομένου οὔτε μνημονεύει οὔτε φιλεῖ·
Perciò inoltre, se questo (il corpo) deperisce, né ha più memoria né ama;
οὐ γὰρ ἐκείνου ἦν, ἀλλὰ τοῦ κοινοῦ, ὃ ἀπόλωλεν·
infatti ciò che è deperito (ὃ ἀπόλωλεν, “ciò il quale” + partic. neutro attivo di apollumi) non sarebbe di quello (dell’anima), ma del composto (corpo + anima);
ὁ δὲ νοῦς ἴσως θειότερόν  τι καὶ ἀπαθές ἐστιν.
Ma l’intelletto forse (ἴσως: ugualmente->verosimilmente) è qualcosa di più divino e immutabile [del corpo].
 
COMMENTO
In questo passo, Aristotele vuole chiaramente affermare che l’anima è qualcosa di superiore al corpo. Sebbene infatti quest’ultimo permetta ad essa di esplicare le proprie funzioni, nel caso del vedere attraverso i propri organi sensoriali (l’occhio), e in modi non precisati per il pensare, essa non ne è tuttavia influenzata nella sua essenza. Difatti, qualora tali organi siano compromessi, anche le sue funzioni, ad esempio quelle visive o intellettive, lo sono. Ma se tali organi vengono in seguito riparati o sostituiti, essa ritorna a lavorare correttamente (…”la vecchiaia [giunge] non per aver sofferto qualcosa nell’anima, ma nel corpo.”), prova (secondo Aristotele) del fatto che ha continuato a esistere malgrado la menomazione corporea.
Aristotele dunque, non pare qui aderire alla sua stessa tesi (materialistica) secondo cui l’anima è una funzione del corpo, prodotto di esso, e a esso immanente. (“E certamente il comprendere e il ricercare si affievoliscono poiché qualcosa d’altro dentro [il corpo] si deteriora, ma esso (=il ricercare e il comprendere) è immutabile”.)
Ciò è tanto più vero per le funzioni intellettive, in quanto riguardanti non “oggetti” fisici, come suoni, forme, ecc., ma quelle entità astratte, le forme intellettive, che nei corpi materiali (come noto) non possono esistere nella loro natura semplice e pura, ma solo “mescolate” alla materia (SINOLO).
Questo ripensamento in senso idealistico e platonico dell’idea di anima ha però una natura ipotetica, non pare cioè essere definitivo, come dimostra l’uso del forse (ἴσως) nell’ultima frase…
ὅτι μὲν οὖν οὐχ οἷόν τε κινεῖσθαι τὴν ψυχήν, φανερὸν ἐκ τούτων·
Il fatto che dunque non sia possibile (οἷον) che l’anima venga mossa, risulta chiaro da queste cose; 
εἰ δ’ ὅλως μὴ κινεῖται, δῆλον ὡς οὐδ’ ὑφ’ ἑαυτῆς.
se assolutamente non è mossa, è chiaro che nemmeno [può esserlo] da se stessa.
πολὺ δὲ τῶν εἰρημένων ἀλογώτατον τὸ λέγειν ἀριθμὸν εἶναι τὴν ψυχὴν κινοῦνθ’ ἑαυτόν·
Ma la cosa di gran lunga più illogica tra quelle dette, [è] il dire che il numero sia l’anima che muove se stessa;
ὑπάρχει γὰρ αὐτοῖς ἀδύνατα πρῶτα μὲν τὰ ἐκ τοῦ κινεῖσθαι συμβαίνοντα, ἴδια δ’ ἐκ τοῦ λέγειν αὐτὴν ἀριθμόν.
Sorgono contro essi le prime impossibilità (πρῶτα ἀδύνατα): sia quelle derivanti dall’ [anima] essere mossa; sia quelle proprie del dire (letteralm., proprie (=derivanti) dal dire: ἴδια ἐκ τοῦ λέγειν) che essa sia un numero.